Il dubbio, mai come questa volta, è ruvido come la carta vetrata. Il dubbio se esista o no un “lassù”, e se da “lassù” Claudio Caligari possa vedere quanto sta succedendo “quaggiù”. Gli arriva? Gli arriva l’eco degli applausi e dei commenti entusiasti, il sapore dell’ammirazione, il fiato del riscatto? Riesce a sentire la potenza della sua vittoria, conquistata alla Mostra del Cinema di Venezia dopo tanto penare e peregrinare? Con le beffe della vita, Caligari, chissà perché ha dovuto fare i conti spesso. E fino alla fine: perché bastava poco, Non essere cattivo era ormai finito, ma il suo corpo ha ceduto e forse anche la sua anima. Consumata da una gigantesca volontà che l’ha condotto fino all’ultima scena da montare ma non oltre. Se ne è andato, il vecchio e ostinato e incantevole Maestro, che la sua opera era finalmente pronta a intraprendere l’agognato viaggio. E quindi non ha potuto assistere a quanto successo al Lido. O forse sì, forse vede tutto da lassù. Speriamo. Anche perché così sa che, nonostante la sua pellicola sia fuori concorso, ha vinto. Claudio, hai vinto, lo vedi? Ma sì. Di certo lo vede. Prima di tutto attraverso gli occhi di Valerio Mastrandrea, che ha sposato la causa come fosse la donna più bella del mondo e l’amore più speciale del mondo. Che ha trovato il modo, i soldi (lui stesso co-produce con Kimerafilm, Raicinema e Taodue, distribuisce la Good Films). Che è arrivato a Venezia con i due giovani e arditi protagonisti, Luca Marinelli (Cesare) e Alessandro Borghi (Vittorio), e le altre interpreti Silvia D’Amico e Roberta Mattei. E sul suo volto c’era quella fierezza che vien fuori quando si trova la chiave per aprire la porta più pesante: “Qua Claudio c’è, c’è il suo film, c’è il suo cinema“.
Non essere cattivo è, per certi versi, la prosecuzione di Amore tossico. Ancora periferia romana piegata in due dall’isolamento e dalla miseria, ancora gli ultimi che arrivano a credersi onnipotenti grazie alla droga ma sanno che i segni del perdente li avranno addosso sempre. Anche quando avranno, se l’avranno, un lavoro e una famiglia. C’è un tipo di fame che scava le carni dell’anima e non passa mai. La storia è essenziale, Cesare e Vittorio nascono e sopravvivono in una Ostia feroce degli anni Novanta, toccheranno il fondo, il secondo troverà un’àncora e l’altro non ci proverà neppure. Diversi eppure intercambiabili. Ma non è tanto la storia a essere importante, quanto le modalità in cui viene raccontata. Gli sguardi di tutti, degli attori e della macchina da presa, del regista e di chi comunque ci ha creduto. E’ un film forte, crudo, che fa più male di una sberla. Che in certi momenti vien voglia soltanto di girare la testa dall’altra parte. Sì, è vero, c’è il suo cinema. Che si è tradotto in soli 3 titoli e forse resterà sempre un rimpianto per questo. Ce ne volevano di più. Ma non è ancora detta l’ultima parola.
“Ormai – ha commentato Mastandrea – è troppo tardi fare considerazioni sulla carriera di Claudio. Pensiamo che ha fatto tre film, che sono pochissimi, ma che resteranno sempre. Ha cinque copioni nel cassetto e di sicuro li tireremo fuori. Il suo cinema lo faceva lui e basta, certo, ma noi tenteremo di continuare a far conoscere le sue idee. Perché in fondo, anche lui è uno che nella vita non ha mai voluto pareggiare“. Pareggiare mai. Perdere va bene, a ‘sto punto è meglio. Ma si vince, anche. Come questa volta. Chissà come se la passa, lassù. Chissà perché vengono in mente le parole pronunciate da Tim Roth/Novecento nell’ultima scena de La leggenda del pianista sull’oceano: “Ehi Max, sai però che musica con due mani destre! Se solo lassù riesco a trovare un pianoforte…“.
PS: condividiamo la domanda che rimbomba nella testa di molti: perché fuori concorso?
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