Kim Ki Duk è sicuramente uno dei più grandi registi della storia del cinema. Rita Ricucci ha scritto Lo spazio dell’anima un libro che lo racconta.
Abbiamo avuto il piacere e l’onore di intervistare l’autrice del libro-saggio che ci ha raccontato molto dello stesso regista sudcoreano.
Come mai ha scelto di fare uno studio su Kim Ki Duk?
Kim Ki Duk è da sempre l’autore che più mi ha incuriosito. Usa un linguaggio simbolico e il film L’Isola ne è esempio. Il suo “girare” va ben oltre l’impresa cinematografica. Quello che il regista ha fatto è scrivere con fotografia e montaggio il vissuto dell’uomo moderno, non da ultimo anche il suo. Proseguendo la visione dei suoi film, direttamente ai festival e al cinema, l’impatto emotivo maggiore è avvenuto con Arirang, unico nel suo genere documentario-biografico. È proprio con Arirang che è iniziato uno studio vero e proprio sul cinema del grande regista sudcoreano. Perché è stato, ed è ancora, l’unico a evidenziare la categoria dell’umano attraverso la maestria del montaggio e dell’uso quasi esistenziale della fotografia.
Come ha cambiato la storia del cinema l’opera di questo regista?
Come dicevo, Kim Ki-duk è stato tra i primi a voler osservare una vera e propria antropologia culturale: i limiti della società capace di generare un umano tanto fragile da divenire sempre più simile a un animale, una bestia feroce. Si pensi alla ferocia di Crocodile, il suo primo lungometraggio, dove l’omonimo protagonista è ai margini di un paese in preda al capitalismo. Si pensi a Pietà, il Leone d’Oro 2012, traboccante di violenza nelle gesta dell’usuraio protagonista. Ma anche a L’isola nel quale il regista mette a tema il significato dell’amore attraverso lo strazio delle carni, fino alla morte come in una tragedia greca…insomma, Kim Ki-duk ha fotografato, cioè ha lasciato che fossero le immagini, gli sguardi, le gesta dei protagonisti a parlare (il silenzio dei suoi protagonisti, spesso, è il suo). Ecco, questo non si è ancora visto nel panorama sudcoreano contemporaneo, per quanto, film pluripremiati e k-drama, sfruttino gli stessi temi.
Lei fa distinzione nel libro tra vivente e umano, cosa intende?
La distinzione tra vivente e umano è propria dalle pagine del grande filosofo Emmanuel Lévinas e Martin Heidegger, riprese concettualmente negli studi di Silvano Petrosino, che è professore di Antropologia filosofica presso l’Università Cattolica di Milano. Questi sono gli autori ai quali mi sono dedicata nel mio percorso di studi. Per poter spiegare brevemente la distinzione tra le due categorie, chiamiamo un soggetto A e l’altro B: il vivente è il soggetto A e và verso il soggetto B mosso dall’inter-esse, vale a dire per il guadagno proprio, un proprio vantaggio, il proprio godimento; l’umano è il soggetto che si muove verso l’Altro (il maiuscolo è levinassiano), identificandolo come altro da sé, accettando di guardarlo e di essere guardato dall’altro e perciò ridefinito in sé stesso dallo sguardo dall’Altro. In altre parole, si nasce viventi, ma si diventa uomini se capace di reciprocità, di relazioni di cura e attenzione verso se stessi e gli altri. Il film per eccellenza che compie, a mio avviso, e magistralmente, questo itinerario è appunto, Ferro 3-La casa vuota.
Che peso ha l’abitare nei film di Kim Ki Duk?
L’abitare è l’altra categoria cara ai filosofi sopracitati: l’abitare è verbo proprio di una casa, sinonimo di luogo che protegge, accoglie, nel quale il soggetto cresce e si schiude alla vita. Per questo Ferro3-La casa vuota ne diventa il paradigma perfetto. Il protagonista, come sappiamo, nonostante apra le case rimaste inabitate dai proprietari, non è un teppista: si adopera ad abitare al meglio il luogo che visita mostrandoci il vivere dei legittimi proprietari: dalla non curanza di un figlio nei confronti dell’anziano padre che muore solo con il suo cane; alla coppia il cui figlio gioca con le armi e, non ultimo, un marito capace di abusi.
Quanto è importante lo spirito nei film del regista?
Non è semplice rispondere a questa domanda perché bisognerebbe considerare alcuni aspetti della biografia del regista e di come questi abbiano influenzato il suo pensiero. Lo spirito permea totalmente i film di Kim Ki-duk, a volte assomiglia allo spirito di un Bodhisattva, perno della filosofia buddista, come in Primavera, estate, …; a volte diventa lo Spirito cristiano come in Ferro 3, Samaria o Human, Space, Time and Human. Cresciuto con principi cristiani, dopo il servizio militare passa un periodo in un monastero cristiano con l’obiettivo di diventare un predicatore, vive in una Corea buddista all’origine, evangelizzata da più fronti cristiani: dai luterani agli evangelici ai cattolici, perciò la sua formazione non è esente da una riflessione spirituale. Tornando alla scrittura filmica di Kim Ki-duk, quello che è importante dire, e necessario, a mio avviso, è che attraverso i film ha descritto pienamente le dimensioni dell’uomo di corpo, mente e spirito.
Chi sarà l’erede di Kim Ki Duk?
Non vorrei sembrare di parte o troppo rigida ma non vedo nessun erede del grande maestro sudcoreano. Sarebbe come cercare l’erede di Egon Schiele, il pittore espressionista amato dallo stesso Kim Ki-duk o addirittura come guardare la Pietà di Michelangelo e pensare che possano esserci stati eredi. Senza dubbio, ciò che rimane del maestro sudcoreano è la traccia sulla quale lavorare e proseguire, poi ci si rimette al mercato e agli onori del successo per quelli che sono più fortunati. Volutamente non cito nessun regista sud coreano tra quelli più acclamati dalla critica e dal pubblico e pluripremiati.
Una tragica morte, come prese la notizia?
Una tragica morte, si, lo è stata. Pochi giorni dopo la pubblicazione del mio libro, leggo della prematura scomparsa del maestro, in Lettonia, a causa del Covid19. Tuttavia, lo scorso anno, a Venezia viene presentato, Call of God, ultimo film girato, da Kim Ki-duk, postumo. Continuo a pensare a lui come un uomo vivo che ha deciso di uscire dalla scena pubblica di questo mondo e di fare del resto della sua vita, un’ennesima opera d’arte… magari figurativa, sotto un nuovo nome o senza nome, così come senza volto.