Mimesis editore ci propone un altro libro di cinema di assoluto livello. Look Over Look ci racconta Stanley Kubrick da un altro punto di vista.
Abbiamo avuto il piacere e l’opportunità di intervistare Caterina Martino autrice di questo prestigioso saggio cinematografico.
Come è arrivata alla realizzazione di Look over look?
La pubblicazione di Look Over Look ha segnato, per certi versi, un traguardo importante della mia carriera nel mondo accademico perché è il risultato dell’intero percorso dal mio dottorato di ricerca (iniziato nel 2010) ad oggi.
Come tutte le prime monografie Look Over Look condensa e mescola elementi del mio vissuto personale che sono andati di pari passo alla mia ricerca scientifica: il dottorato; l’anno trascorso a Londra nello Stanley Kubrick Archive (conservato presso l’Archives and Special Collections Centre del London College of Communication); la guida del mio maestro Marcello Walter Bruno (anche lui autore di un importante libro su Kubrick pubblicato nel 1999); i miei corsi universitari sul linguaggio audiovisivo (attraverso cui qualche anno fa per la prima volta ho presentato Kubrick come paradigma del rapporto tra fotografia e cinema) e molto altro.
Tutto ha avuto origine nello Stanley Kubrick Archive. Lì ho avuto la possibilità di approfondire la mia ricerca lavorando sulle fotografie di produzione e post-produzione di 2001 – Odissea nello spazio e Full Metal Jacket. Il mio approccio a quell’epoca era ancora molto ancorato agli studi di fotografia. Solo più tardi, ampliando il mio interesse su una serie di questioni che legano la fotografia al cinema e viceversa, ho capito il ruolo e l’importanza dell’immagine fotografica nell’opera di Kubrick.
Curiosamente, quando sono partita per il mio periodo dottorale all’estero non sapevo che avrei avuto la possibilità di fare ricerca nello Stanley Kubrick Archive e quando sono ritornata in Italia per completare la mia tesi di dottorato non avrei mai immaginato che Kubrick sarebbe stato poi il protagonista del mio primo libro.
Look Over Look, quindi, dimostra in che modo i miei studi sulla fotografia si siano intrecciati a quelli sul cinema, andando a definire e consolidare una linea di ricerca che intendo proseguire in futuro.
Stanley Kubrick è un autore difficile perché con lui si sono confrontati critici molto famosi a livello internazionale e anche in Italia sono diversi i nomi che ne hanno approfondito la figura. Come si è sentita a entrare nella storia, anche se indirettamente, di questo grande autore?
Ho avuto molta cura nel non dare nulla per scontato, nel leggere e conoscere ciò che è stato pubblicato prima. Allo stesso tempo, però ho cercato una chiave di lettura specifica; ho tentato di guardare i film di Kubrick con uno sguardo rinnovato. E ho trovato la mia strada.
D’altronde, l’esperienza presso lo Stanley Kubrick Archive mi ha messo in diretta connessione con il mondo kubrickiano: il fascino dell’archivio, dei materiali conservati, della storia personale e artistica racchiusa in quelle scatole. L’esperienza vissuta in quel luogo (il cui arredamento, tra l’altro, è ispirato agli interni della Hilton Space Station di 2001) non sarà mai uguale a quella di studiare un autore solo attraverso dei libri.
Inoltre, non ho la pretesa di essere annoverata tra i grandi nomi che hanno studiato Kubrick, ma credo che Look Over Look abbia contribuito a far emergere con forza un tema che non era ancora stato sondato.
Cosa pensava mancasse ancora alla bibliografia di Kubrick per scriverne un libro?
Mancava il ponte tra le sue due carriere: quella di fotografo e quella di regista. Kubrick è uno di quegli autori che ha una natura ibrida (mi piace chiamarla così). Da sempre le due sfere artistiche e professionali sono considerate e trattate come separate: alcuni studiosi si occupano della sua produzione fotografica a “Look”, altri della sua produzione cinematografica. In entrambi i casi c’è un accenno all’una o all’altra carriera ma sempre in forma di contestualizzazione o di flebili rimandi. Il rischio è che il quinquennio trascorso a “Look” appare come una doverosa gavetta che ha concesso al giovane Kubrick di approcciare il mondo delle immagini ma che poi è stata messa da parte nel momento in cui è riuscito a realizzare la sua vera e unica vocazione, quella del regista cinematografico. In effetti, l’operazione più frequente avvenuta in passato è stata quella di rintracciare nelle sue fotografie gli elementi del suo cinema. Più raramente è avvenuto il contrario, cioè rintracciare nei suoi film la profonda presenza e influenza della fotografia.
Nel libro Look Over Look provo a dimostrare che per comprendere i film di Stanley Kubrick è necessario riconoscere la sua carriera come una sola, una carriera fotocinematografica. Kubrick non ha mai smesso di essere un fotografo, né ha mai smesso di occuparsi di fotografia o di macchine fotografiche. Analizzati sotto questo punto di vista i suoi film rivelano un sorprendente legame con tendenze, opere e personaggi del mondo della fotografia.
Quanto era importante la fotografia nel cinema del cineasta?
Estremamente importante. E non sto parlando della fotografia cinematografica (nel quale è stato comunque un maestro).
Nell’esperienza a “Look” risiede la matrice della sua gestione della narrazione per immagini. Mi riferisco al photo essay, strumento tipico del fotogiornalismo che però a “Look” ha una connotazione diversa, più rivolta alla cultura e all’intrattenimento. La fucina fotografica della rivista in cui Kubrick è stato guidato da Arthur Rothstein (ex membro della Farm Security Administration e autore di una manuale sul fotogiornalismo, nonché colui che ha contribuito all’interesse di Kubrick per il cinema sovietico) produce narrazioni che funzionano già come il cinema: un set, uno script, un cast, una troupe, ecc.
Uno dei photo essay più famosi di Kubrick a “Look” è Prizefighter – pubblicato nel 1949; sarà lo storyboard del suo primo film documentario Day of the Fight (1951) che a sua volta sarà lo storyboard dell’incipit del suo primo noir Il bacio dell’assassino (1955) – ha una struttura narrativa (la giornata tipo di un soggetto) che Kubrick replicherà più volte nei suoi film.
Ma non è solo una questione di linguaggio fotografico e cinematografico. Kubrick inserisce e usa la fotografia nei film in diversi modi: essa è fonte per la verosimiglianza della rappresentazione; è elemento attante nella narrazione; è costante presenza nella scenografia; è protagonista del film (attraverso macchine fotografiche o il personaggio del fotografo); è oggetto di riflessione (fotografia e feticismo; fotografia e mass media; evoluzione tecnologia; ecc.); e altro ancora.
Tutto ciò arricchito dal legame professionale e personale instaurato con diversi fotografi come Rothstein, Bert Stern, Weegee, Diane Arbus, William Klein e altri ancora.
Qual è il suo film preferito di Kubrick e perché?
È sempre difficile per me scegliere un solo film perché ogni film di Kubrick è diverso dall’altro (persino i suoi film di guerra, il genere più ricorrente nei quattordici film realizzati, sono diversi tra di loro). E perché ogni film ha la sua peculiarità (anche dal punto di vista fotografico): Day of the fight (1951) è il remake di Prizefighter; Fear and Desire (1953) è un primo tentativo di montaggio intellettuale; Il bacio dell’assassino per il noir in stile Weegee; Rapina a mano armata per la narrazione non lineare; Full Metal Jacket per la colonna sonora; e così via.
Se dovessi sceglierne uno forse direi 2001 – Odissea nello spazio (1968) e i motivi sono diversi. A cominciare dallo shock della prima visione: ho visto il film da spettatrice contemporanea e mi sono stupita di quanto potesse essere bello da guardare ancora negli anni Duemila (l’epoca immaginata nel film) grazie a degli effetti speciali straordinari. E poi l’occhio fotografico attraverso cui Hal guarda e ci fa guardare il suo mondo. O, più semplicemente, perché mi ricorda lo Stanley Kubrick Archive.
Pensa che sia stato il più grande regista della storia del cinema?
Penso che Kubrick sia tra i grandi registi della storia del cinema. Kubrick è un autore moderno (nel senso descritto da Giorgio De Vincenti in Il concetto di modernità nel cinema) che usa il linguaggio e il racconto cinematografico per esprimere una sorta di teoria sull’immagine stessa.
I suoi film sono acutamente studiati e progettati. Lo spettatore è consapevole di non trovarsi davanti a un prodotto del cinema classico e quindi deve stare attento a ogni singola inquadratura (o almeno ci prova!).
Per questo motivo il mio libro Look Over Look non sarà certamente l’ultimo libro che ha provato a dire qualcosa di nuovo. Per questo motivo ci sarà sempre molto da scrivere su Kubrick.
Che altro cinema, oltre Kubrick, ama Caterina Martino?
Caterina Martino ama il cinema! Posso solo dire che ho attraversato diverse fasi, che di fatto non si sono mai concluse veramente. Ho avuto e ho la mia fase Wim Wenders; la fase Michelangelo Antonioni; la fase Steven Spielberg; la fase Wes Anderson; ecc. Elencandoli direi che si tratta soprattutto di registi che hanno un profondo legame con l’immagine, proprio come Kubrick.
Sta lavorando a qualcosa di nuovo?
Certamente. Ho in cantiere diversi progetti, da brevi saggi a futuri volumi. Tra le diverse linee di ricerca, negli ultimi anni mi sto occupando molto delle figure ibride accennate in precedenza (registi/fotografi, fotografi/registi).
La mia prossima monografia avrà sicuramente come protagonista uno dei registi citati nella risposta precedente, ma da vera kubrickiana lascio al lettore scoprire di chi si tratta attraverso gli indizi disseminati nel testo.