Roberto Lasagna, insieme a un nutrito gruppo di critici, ha pubblicato la raccolta Corea Shock Il nuovo cinema horror della Corea del sud.
Abbiamo intervistato in esclusiva l’autore del libro edito dalla casa editrice Profondo Rosso.
Come nasce l’idea di pubblicare un libro sul cinema horror della Corea del sud?
Dietro al libro Corea Shock c’è l’idea di voler percorrere alcune tracce che questa ricca filmografia ha disseminato, e ci siamo concentrati soprattutto sugli ultimi vent’anni, quando il cinema horror sudcoreano ha acquisito anche in occidente una più chiara fisionomia. L’intento era di raccogliere le tensioni profonde, le paure, gli squarci visionari, le prospettive esistenziali offerte dai film di un paese che trova attraverso gli autori cinematografici i depositari di una visione politica e di una prospettiva antropologica. Notoriamente, le ferite dell’anima e quelle della nazione sono state portate alla luce da cineasti divenuti anche molto noti, nonché difficilmente incasellabili in un genere. Come se l’horror fosse sempre dietro l’angolo, anche nelle prospettive più autoriali ed esistenziali. Quindi il libro tenta di condurre il lettore in un viaggio sfaccettato, tra le numerose prospettive che si aprono a confronto con una filmografia che non di rado quarda al passato, storico e culturale, dove affiorano temi prevalenti ed echi di una cultura con cui i giovani cineasti tornano a confrontarsi.
La Corea è un paese che vive estreme e radicate problematiche, che hanno portato tra gli altri ad approfondire la questione personaggi illustri del mondo cinematografico come Kim Ki Duk. Anche se ovviamente la Corea del Sud vive molto diversamente da quella del nord, quanto a livello politico ci sono state influenze in un cinema mai troppo accettato come l’horror?
Le influenze politiche sono evidenti nella quotidianità di questi personaggi che vivono spettri e traumi, che attraversano confini e si ritrovano in territori di alienazione e dispercezione della realtà. L’horror è un genere aperto e di confine, che nel ripresentare costanti tematiche e formali, ingloba istanze della cultura contemporanea, tensioni radicate nel presente, che inevitabilmente ottengono di portare in luce lo scontro con gli interrogativi lasciati aperti nel passato. L’horror, oltre all’effetto catartico, favorisce il discorso sul bisogno di intervenire nel presente, anche e soprattutto a livello politico. E a proposito di Kim Ki Duk, che non è un regista di genere ma un autore assoluto, nel libro è contenuto un significativo intervento di Rita Ricucci, a mio avviso tra le migliori interpreti dell’opera del grande regista scomparso (è autrice di una monografia sul regista edita da Falsopiano). Proprio ne Il prigioniero coreano, Kim Ki Duk realizza l’impietoso ritratto della società coreana dove, a causa della guerra ideologica, sembra essersi smarrito ogni brandello di identità umana e civile.
Se potessi descriverci il cinema sudcoreano dell’orrore in due righe cosa ci diresti?
L’horror sudcoreano è un cinema-mondo, dove si ritrova lo pshycho-horror o quello di fantasmi, ma non mancano gli zombie e i vampiri, la serialità e i cartoon, i temi dell’inchiesta e le prospettive più ancorate a una visione antropologica. E’ sovente una chiave d’accesso all’esistenza degli individui contemporanei, alle prigioni della psiche e della socialità, che si propone come una fucina di ottimi interpreti e di registi notevoli, che funziona anche da laboratorio di una cultura in costante confronto con i retaggi del passato, con le dinamiche familiari da cui originano le ingiustizie sociali.
Tra i film che hai analizzato c’è anche The Red Shoes, che è stato un grande successo. Perché ti ha colpito questo film?
Pur non essendo, a mio parere, tra le vette formali di questa filmografia, questa trasposizione in chiave strettamente horror della fiaba di Hans Christian Andersen è paradigmatica della predilezione asiatica per racconti di anime che continuano a vivere portando alla luce gli aspetti di una maledizione terrificante. E attenzione, perché nella sua estetica elettrizzata non mancano gli omaggi al cinema horror italiano, in particolar modo a Dario Argento. In questi scorsi di passato, i fantasmi sono una presenza quasi immancabile, tra le ossessioni prevalenti di un cinema che coglie individui schiacciati dall’impossibilità di accettare le regole della modernità e nello stesso tempo di obbedire ai costumi e alla religione provenienti dall’occidente.
Recentemente hai lavorato ad altri libri corali, ci spieghi quanto è difficile assemblare un libro scritto da tante mani?
I punti critici possono essere diversi, ma ritengo possa essere stimolante il confronto, il rapportarsi su argomenti comuni. Per questo, ogni tanto, alterno un libro scritto da solo a un altro preparato assieme ad altri autori. Ritengo i miei libri parti di un diario personale nell’immaginario cinematografico, un viaggio psichico e politico. Avere avuto dei compagni di viaggio è qualcosa che mi riempie di soddisfazione. E ritengo possa essere un arricchimento reciproco. Recentemente ho lavorato a un libro su Croneneberg (per Weirdbook), ma in quel caso eravano quattro autori e ciascuno si assumeva una parte di filmografia e sapendo di lavorare assieme a tre bravi autori di cui sono amico e che stimo (Rudy Salvagnini, Massimo Benvegnù, Benedetta Pallavidino) devo dire che sono molto contento del risultato ottenuto. Sono contento anche del libro su Wes Craven (sempre per Weirdboook, curato con Rudy Salvagnini), dove gli autori erano di più, e ciascuno si è dedicato a un argomento in maniera rigorosa e piacevole per il lettore. Corea Shock mi piace perché ne è uscito un libro quasi sperimentale, con un editore assolutamente fuori dal coro con cui non avevo mai lavorato. Non cercavamo né l’esaustività né la corerenza assoluta. Ma la lettura mi sembra offra spunti interessanti e prospettive poco battute. Non assemblo mai, individuo nel singolo autore chiamato a partecipare quella voce che possa fare la differenza e renderle il libro qualcosa di particolare.
Dopo tantissimi libri scritti dove trovi la motivazione per andare avanti in un’Italia dove purtroppo si legge sempre di meno?
Avrei voglia di scrivere di più, in verità. Ho avuto momenti di demotivazione, come suppongo possa averli chi si sente dire che in Italia si legge poco, che non si va al cinema. Ma oggi ho maturato una prospettiva un po’ diversa. Mi sento ti nuovo dinanzi a un punto di partenza, e se ne avrò il tempo e le possibilità, penso che potrò “rilanciare” e continuare a scrivere per un bel pezzo. O almeno me lo auguro. In effetti l’editoria italiana è in difficoltà, quella cinematografica notoriamente ha numeri di nicchia. Ma c’è dell’altro. La scrittura è una forma di meditazione, una dimensione del pensiero. Una metodologia che richiede il suo spazio, il suo tempo, e ti restituisce molto. Ogni tanto sento dire “ma come fai a scrivere così tanto?!?”. Perché la scrittura ti fa vivere nel presente ma in modo diverso, come in una forma di autoanalisi che ha momenti di forte creatività. E (anche) grazie ad essa riesci a vivere in maniera piena, riesci a fare un mucchio di altre cose oppure anche a non farne che può andare comunque bene così…
Progetti in cantiere?
Stiamo preparando la nuova edizione del Festival Adelio Ferrero Cinema e Critica che si svolgerà ad Alessandria dal 28 settembre al 7 ottobre. Sarò il direttore artistico con Giorgio Simonelli. E sul fronte dei libri, ti posso dire che sto lavorando a diversi progetti, mentre per la collana di Profondo Rosso è in preparazione una monografia sull’attore Peter Lorre.