Vincenzo Altobelli ha pubblicato per Pendragon Editore il saggio “Fammi vedere del male. Il cinema di Michael Haneke”.
Con grande intelligenza l’autore riesce a sottolineare degli aspetti sfuggiti ai più, dando un taglio al suo saggio che cattura l’attenzione e crea curiosità sui film in esame. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo.
Da dove è nata l’idea di scrivere un libro su Michael Haneke?
Potrei dire che la scelta nasca dal bisogno di soddisfare il gusto e l’interesse personale per un certo cinema con il tentativo di colmare un vuoto editoriale. In Italia, infatti, le monografie sul cinema di Haneke sono tutte incomplete. Al di là dei lavori di Fabrizio Fogliato e di Viviana Simoni, che però risalgono rispettivamente al 2008 e al 2013 lasciando di fatto “senza discussione” gli ultimi film o dello stesso studio recente di Lorenzo Rossi che opera una selezione tematica nella filmografia del regista, non c’è in Italia uno studio completo sull’opera cinematografica di Haneke. Preciso “cinematografica”, perché Haneke ha avuto una precedente e altrettanto illustre carriera come regista di film per la Tv austriaca, di cui però il mio libro non tiene conto.
Il titolo “Fammi vedere del male” a cosa lo dobbiamo?
Credo che il titolo sia nato a libro quasi ultimato. Una sera, alla televisione, il palinsesto era ancora una volta fitto di programmi di approfondimento di cronaca nera. Personalmente sono da sempre contrario a una certa curiosità morbosa per i fatti di sangue reale che – siamo onesti questo tipo di programmi soddisfa a pieno. Che senso può avere per la società civile, per il grande pubblico conoscere l’esatta dinamica di una strage, vedere il volto del “mostro di turno”, sapere se “era una persona normale che salutava sempre” (come immancabilmente riferirà il vicino di casa intervistato). Un desiderio di vedere “negli occhi” e “con i propri occhi” il male; cosa che, già di per sé perversa, lo è ancora di più se avviene all’interno di una società occidentale come la nostra immolata al politicamente corretto e radicata nell’etica cristiana. Haneke fa proprio questo: rivela al massimo il bisogno umano di crudeltà, ma lo lascia insoddisfatto, inappagato nelle immagini prive di violenza diretta o di sangue esplicito.
Nonostante la fama internazionale Haneke è un regista di cui si parla fin troppo poco in Italia. Ti sei chiesto il perché?
Sai, si dice che “La gente ha bisogno di ridere, perché la vita reale è già così difficile”. Nel cinema di Haneke non si ride mai. Dico davvero: mai! In un altro regista che adoro, Ulrich Seidl, anche lui austriaco – ho scoperto, preoccupandomi un po’ di me stesso, devo essere onesto (ride), di aver una predilezione per un certo cinema “cattivissimo austriaco” ,forse ancora più cattivo di Haneke, quantomeno ci sono situazione d’umorismo nero che un po’ ti lasciano il sorriso agli angoli della bocca (e anche su questo, sul ridere dinanzi a situazioni negative, ci sarebbe da riflettere). Certo, la fama di Haneke è cresciuta radicalmente, forte di tutti i premi di cui è stato ricoperto in giro per il mondo. Eppure, resta un “regista da festival”, è vero. In questo c’entrano certamente le logiche della distribuzione italiana, della sparizione delle sale (non credo che la sera per rilassarsi uno scelga di guardarsi Il nastro bianco su Netflix!), ma pure nel mondo accademico, da dove provengo, il suo cinema non ha mai raccolto riflessioni considerevoli. In generale credo sia un regista scomodo, che ti costringe a ripensarti e a pensare il mondo di cui sei parte e artefice. È molto più comodo ignorarlo.
E soprattutto perché ancora non si convincono a doppiare i suoi primi film in italiano?
Io mi accontenterei che i suoi primi lavori venissero editati in DVD sottotitolati in italiano… Ma il cinema, al di là delle retrospettive e delle rassegne sempre deserte, è un’arte coniugata al futuro, o peggio è un intrattenimento del presente istantaneo. Già è tanto vedere un film di Haneke distribuito in sala. Solitamente vi resta una settimana e poi viene rimosso. Haneke non fa vendere: già un distributore chiude entrambi gli occhi quando sceglie di programmarlo in pochi cinema, figuriamoci spendere dei soldi per doppiare film di trent’anni fa. Purtroppo è l’amara verità.
A livello sociale Haneke ha parlato spesso dei problemi della Germania e non solo, cosa può dirci in merito?
Al di là del Nastro bianco, effettivamente (ma neanche pienamente) incentrato sul passato tedesco, penso che il suo cinema non abbia uno specifico passaporto. O meglio, ne ha sicuramente uno, ed è europeo. Il cinema di Haneke, come dico a più riprese nel libro, parla dell’Europa all’Europa, raccontando di una ben precisa classe sociale (così si sarebbe detto un tempo) e di una malattia che, pur non avendo causa, ha un responsabile: l’individuo moderno. Pur essendo un cinema di lingua tedesca e francese, sono convinto che nulla cambierebbe se i suoi film venissero ambientati a Roma, anziché a Parigi o a Vienne. E questo, anche pensando alla domanda di prima, dà parecchio fastidio.
Se c’è, qual è il tuo film preferito del regista di origine austriaca e perché?
Quando si lavora su un autore e su tutto il cinema di quell’autore, la coerenza tematica ed espressiva che abbraccia i suoi film li rende capitoli – più o meno efficaci, certo – di un medesimo racconto. Amo tutto il suo cinema, proprio perché vi ritrovo dei rimandi interni costanti, un filo rosso che va da film a film, che li avvicina e rende difficile srotolare il gomitolo alla ricerca di un prediletto. Se proprio devo, forse 71 frammenti di una cronologia del caso è il mio preferito: un “film compendio” del discorso hanekiano.
Il mio è Niente a nascondere, cosa ne pensi?
Niente da nascondere è il film che mette d’accordo tutti, pubblico amatoriale ed esperti, critici e studiosi. Credo sia anche l’unico film a comparire nei corsi universitari di cinema, quando si ricordano di inserire Haneke nel programma didattico. E non stento a crederlo, perché al di là della sua eleganza formale, è un efficace lavoro sulla visione, su cosa è un’immagine, sul concetto di colpa passata e presente… all’interno di un mistery classico. Insomma, tutto ciò che serve per fare un capolavoro.
Quanto è importante all’interno della cinematografia del regista la famiglia?
Non esiste un film di Haneke in cui non sia coinvolto un nucleo familiare. Il suo cinema nasce e muore in famiglia. Potrei dire, letteralmente. La famiglia è il luogo del privato per eccellenza. Ed è un privato sgradevole. Haneke lo sa bene, ma se n’è infischia, facendo percepire, intuire, vedere – ditelo come volete ciò che non andrebbe visto. Oggigiorno la famiglia è un corpo nudo, esposto agli attacchi esterni, sebbene finga che tutto vada bene. A Haneke interessa questo, mostrare e dimostrare quanto la famiglia sia la prima vittima e la prima responsabile delle ingiustizie del mondo.
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