“L’uomo che rubò Banksy, il fantasma dell’arte contemporanea”, al cinema il film evento che riflette sulla street art

E’ giusto rimuovere le opere di street art e rivenderle? Qual è la natura di questo tipo di arte? E’ effimera e destinata a scomparire o è necessario conservarla per il futuro? A chi appartengono queste opere? Alla gente o al proprietario del muro sul quale si trovano? E’ giusto specularci su o questi lavori dovrebbero rimanere alla gente per una fruizione gratuita? Su questa, e su altre simili questioni, punta i riflettori “L’uomo che rubò Banksy, il fantasma dell’arte contemporanea”, il documentario evento che, dopo essere già stato presentato in diversi paesi del mondo, arriva anche nei cinema italiani l’11 e 12 dicembre, grazie a Nexo Digital.

Il film, passato in anteprima al Torino Film Festival, prende le mosse dall’azione di Walid The Beast, palestrato tassista palestinese che, nel 2007, decise di tagliare (con tanto di flessibile ad acqua e l’aiuto della comunità) il pezzo di muro su cui lo street artist britannico Banksy disegnò un militare israeliano che controlla i documenti di un asino. Il motivo? Mettere all’asta l’opera e ricavarci un bel gruzzoletto.

Il regista di questo documentario che potremmo definire punk e denso di informazioni, interrogativi e personaggi, è il giovane Marco Proserpio, che così ci racconta la genesi del suo film.

In realtà è la storia che ha trovato me. Nel 2012 ero a Gerusalemme, ho passato il check point per andare a Betlemme in Palestina e la prima persona che ho trovato è stato Walid The Beast, il tassista palestrato che poi sarebbe diventato il protagonista del documentario. Fu lui a raccontarmi questa storia assurda di aver rimosso l’intero muro di una casa che recava un’opera di Banksy, e di averlo messo su Ebay per centomila dollari. Ho intravisto in questa azione di rubare arte nel contesto palestinese, un’occasione per parlare di Palestina in modo diverso dal solito (i palestinesi vengono ormai dipinti come delle vittime, non più degli esseri umani) e per affrontare tutta una serie di questioni che questo gesto portava con sé (il copyright illegale di opere d’arte, la proprietà privata, la giustizia o meno staccare queste opere e rivenderle). L’incontro con Walid mi fatto ragionare su tutta una serie di questioni che poi nel corso degli anni ho sviluppato, sia seguendo questo pezzo di cemento che viaggiava per il mondo occidentale, sia coinvolgendo persone più o meno legate a questo ambiente che ho potuto esplorare.

“L’uomo che rubò Banksy, il fantasma dell’arte contemporanea”, al cinema l’11 e 12 dicembre per Nexo

Quel “prezioso pezzo di cemento” recante il disegno noto a tutti come “Donkey Documents”, è solo una delle tante opere che Banksy e la sua squadra realizzarono su case e muri di cinta dei territori occupati nel 2007. Opere provocatorie, forti, capaci di suscitare domande e indurre riflessioni sulla guerra, gli scontri di civiltà, la convivenza tra i popoli, e naturalmente sul significato dell’arte di strada. E’ per approfondire tutte queste questioni che il regista ha voluto coinvolgere nel dibattito molti studiosi, esperti d’arte, giornalisti.

Credo che non ci sia un modo giusto o sbagliato di rimuovere queste opere. Questo film è basato su un’azione molto semplice (rimuovere un’opera d’arte da un contesto pubblico). A seconda dei contesti in cui quest’azione viene fatta ci possono essere diverse motivazioni e diversi approcci per questa azione: motivi economici di commercializzazione di tipo capitalistico, oppure volontà di preservare un’opera di valore artistico per il futuro, o come nel caso di Walid The Beast questioni di sopravvivenza. Walid vive circondato da un muro, non ha nessun problema a sfidare quello che per noi è un Robin Hood, cioè Banksy: la sua priorità è sfamare la sua numerosa famiglia. Come dargli contro? Ovviamente il suo gesto ha anche conseguenze negative: l’opera rimossa non può più essere goduta dalla gente e dai visitatori, con anche una ricaduta economica negativa sul turismo. Non c’è dunque una verità su questo argomento, ci sono mille approcci diversi. Ovviamente non sono un grande fan di quello capitalistico, ma dall’altra parte credo sia meglio analizzare i diversi contesti esistenti, le diverse motivazioni con cui le persone fanno questa azione, ed è quello che ho cerato di fare con il mio film.

“L’uomo che rubò Banksy”, una riflessione sulla street art che parte dalla Palestina

“L’uomo che rubò Banksy” mescola riprese fatte in strada con interviste e contributi di persone legate al mondo dell’arte, alterna immagini girate con telecamere HD di ultima generazione con materiale filmato al momento della rimozione con fotocamere mini-DV e telefoni, archivio fotografico e grafica.

La prima ripresa è avvenuta 6 anni fa, ci è voluto molto tempo per completar. Il film non è stato girato in maniera canonica. Il gruppo che vi ha lavorato era più una famiglia allargata per me, composta da una serie di collaboratori storici con cui ho sempre lavorato e con cui viaggiavo. Abbiamo sempre inteso il nostro lavoro come un road movie, seguivamo questa storia e questo pezzo di cemento spostandoci senza preavviso, sempre in pochissime persone (spesso solo io e un fonico), in modo molto punk. Ho voluto rimarcare questo aspetto del film anche in fase di montaggio, abbiamo preferito mantenere la vera identità di questo film.

Il regista Marco Propserpio firma una pellicola sulla street art dal titolo “L’uomo che rubò Banksy”

Valore aggiunto dell’opera è la voce narrante dell’iguana del rock, il cantante e attore statunitense Iggy Pop, che con la sua voce conduce lo spettatore attraverso il viaggio compiuto dal regista e dalla sua troupe.

Una società mi aveva proposto di coinvolgere voci famose, mi avevano fatto nomi di attori di Hollywood ma noi non eravamo d’accordo perché ci sembrava che questo avrebbe stravolto la natura del film. Il primo nome che mi è venuto in mente è stato quello di Iggy Pop: cercavo qualcuno che non fosse legato in alcun modo alla politica, volevo una voce punk. Abbiamo mandato una mail al manager includendo il file del film, con la voce di un amico che faceva il voice over al posto di Iggy Pop. Ebbene, ha accettato immediatamente.

In tutti i paesi in cui il film è uscito sinora, le voci dei protagonisti non sono doppiate, si sentono quindi persone che parlano in arabo, in francese, in inglese: volevamo dare un’idea di connessione, di unione dei punti e dei contesti diversi del mondo, di questioni che all’apparenza sono distanti ma che per noi hanno un disegno comune. Avremmo voluto che il film non fosse doppiato nemmeno in italiano, ma il nostro mercato cinematografico funziona in modo diverso. L’unica voce che non è stata toccata è ovviamente quella di Iggy Pop.

“L’uomo che rubò Banksy”, la voce narrante è di Iggy Pop

Insomma, “L’uomo che rubò Banksy” è un film importante e pieno di domande, forse anche troppe…

Una delle critiche che sono state fatte al film è di contenere al proprio interno troppe questioni. Molte persone mi hanno detto che avrei potuto fare tre documentari con il materiale raccolto. Io lo trovo il complimento migliore che si possa fare al mio film. Abbiamo cercato di includere (anche in fase di montaggio) tutte le questioni nella maniera più chiara possibile: forse allo spettatore arrivano troppi input di ragionamento tutti insieme, ma credo che alla fine, unendo tutti questi punti distanti, rimanga una fotografia di qualcosa di moderno, di ciò che stiamo vivendo adesso, anche di realtà che all’apparenza sono lontane ma in effetti convivono. Insomma, spero che allo spettatore possano rimanere in testa delle domande importanti.

Soprattutto, il film non è un documentario su Banksy.

Ho usato Banksy come una scusa per parlare di questioni che sono molto più grandi dell’artista stesso. Il film ha già fatto un mezzo giro del mondo prima di arrivare in Italia. Molta gente mi chiede di lui, vuole sapere se so chi sia, se l’ho conosciuto. La verità è che non ho mai avuto questa intenzione, per me Banksy è stato solo un pretesto.

 

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