La Festa del Cinema di Roma volge al termine: domani, 24 ottobre, sarà decretato il vincitore. E oggi è stato presentato il quarto e ultimo film italiano in concorso, ovvero Alaska di Claudio Cupellini – in sala dal 5 novembre – con protagonisti il sempre bravo Elio Germano e la giovane nonché molto promettente Astrid Bergès-Frisbey. A dispetto del titolo, la pellicola è ambientata a Milano; Alaska è il nome del locale che rappresenta un ambiente fondamentale nella storia d’amore fra due giovani con cui la vita non è stata particolarmente generosa. Fausto è italiano ma vive a Parigi, lavorando come cameriere in un hotel e coltivando però grandi ambizioni. Sogna di aprire un ristorante, di sfondare, di diventare ricco e potente. Durante una pausa sigaretta, proprio sul tetto dell’albergo, incontra Nadine, una modella che in comune con lui ha la grande fragilità e anche un senso di solitudine attaccato alle ossa. Ma anche un’immensa voglia di riscatto. Fra loro nasce subito qualcosa, amore e passione diventano necessari quanto inevitabili. A causa di un tragico evento, però, Fausto verrà arrestato e rimarrà in galera per due anni. Dovrà dunque separarsi dalla sua Nadine, ma non sarà una cosa definitiva.
Perché la storia ricomincerà, questa volta – appunto – a Milano. Ma non potrà avere un corso tranquillo, anzi i due dovranno affrontare una sequela di incidenti, morti, sparatorie, matrimoni annullati e ostacoli di sorta. Il sentimento resisterà nonostante tutto: Alaska è un’epica storia d’amore, come ha spiegato lo stesso regista nel presentarlo. L’accoglienza alla Festa del cinema è stata contrastante. C’è chi ha parecchio apprezzato non solo la performance dei protagonisti ma anche il ritmo veloce, quei colpi di scena tessuti con innegabile competenza. Il punto debole è invece da ricercare nella sceneggiatura, che Cupellini firma con Filippo Gravino e Guido Iuculano. I detrattori più accesi sono arrivati a definirla addirittura ridicola; forse, più semplicemente, è eccessiva. E l’eccesso minaccia di tradursi in ridondanza e banalità. Può stancare, anche.
Alcune situazioni sono inverosimili, diventano una specie di forzatura nel tessuto narrativo. E’ come se avessero voluto strafare, ecco, finendo con l’ottenere il risultato opposto. C’è troppo. Se ci fosse stato meno, il risultato sarebbe stato superiore. Ciò non toglie che sia un buon film, grazie soprattutto a Germano e alle Bergès-Frisbey, scelta azzeccata e notevole valore aggiunto. E Cupellini ha saputo guidarli nella giusta direzione.
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