Stefano Sollima non ha frequentato scuole di cinema, accademie, corsi ad hoc. Stefano Sollima s’è nutrito di cinema e tv praticamente dalla nascita. Sul set si è sempre sentito a casa, tutto ciò che lo popola ha sempre rappresentato il suo stesso universo. Dal padre Sergio ha imparato tanto e ha eredito una radicata, onesta e profonda passione per il mestiere di regista. D’altra parte non ha mica condotto la vita del “raccomandato” o del figlio d’arte. No, Sollima ha fatto la gavetta. Quella tosta. Ha dovuto aspettare. Il suo primo film, Acab, l’ha girato nel 2012. Il successo è arrivato pochi anni prima con Romanzo criminale – la serie, per poi rafforzarsi con Gomorra – La serie. Adesso in sala c’è Suburra. La consacrazione. Lo diciamo senza girarci intorno e senza timore di risultare di parte. Perché di parte, effettivamente, siamo. Andate a vedere questo film, perché è grande. Bello. E se proprio qualcuno s’impegna a trovare qualche difetto, per esempio nella prevedibilità delle situazioni, beh… Serve a poco. Sollima vince ugualmente.
Vince la sua regia, asciutta eppure densa, secca ma intensa, che trova nel colpo d’occhio le sue suggestioni più forti. Le atmosfere di Suburra è come se parlassero, quella pioggia è materiale e al contempo metaforica, si abbatte su Roma e la sporca anziché lavarla. Quella pioggia è simbolo di una decadenza che arriva dal più remoto passato e che oggi trova una linfa pulsante, cattiva, spaventosa nel senso letterale del termine: tutta questa corruzione fa paura. Perché non se ne esce. Vincono i dialoghi, grazie a quei due indiscussi maestri che rispondono al nome di Stefano Rulli e Sandro Petraglia; una coppia che sa sempre il fatto suo e che stavolta ha affilato la penna ancor di più.
Vincono gli interpreti, appartenenti a diverse generazioni, con diversi bagagli d’esperienza fra le mani ma qua resi gruppo omogeneo dal sapiente Sollima. Certo, qualcuno può piacere più di un altro, è anche una questione di gusti. Ma sono tutti bravi. Tutti con quei panni attaccati alla pelle che quasi sembrano non dover più andare via. Pierfrancesco Favino è un gigante come sempre, interpreta il politico Malgradi e vien voglia di sbatterlo a un muro e sputargli in faccia talmente riesce ad essere miserabile, vizioso, infame. Il boss è chiamato Samurai e ha le sembianze di Claudio Amendola: signori, questa è la sua interpretazioni migliore. Sguardi e gesti calibrati, viscere al servizio della macchina da presa, la consapevolezza di essere nel mezzo di una grande occasione. Alessandro Borghi non è un ragazzo che si farà (cit. De Gregori) ma un ragazzo che si è già fatto. Dopo Non uccidere, eccolo di nuovo qua con tutto il suo talento naturale. Se continua così, arriva talmente lontano da seminare un bel po’ di persone. Le due interpreti femminili, Greta Scarano e Giulia Elettra Gorietti, sono facce giuste nel posto giusto. O completamente sbagliato, dipende dai punti di vista. La pioggia si abbatte pure sulle loro anime e sono così belle da far male al cuore. Perché la loro bellezza, qua, finisce nella fogna dell’ambizione malata e del malaffare, dell’incredibile vuoto dentro e fuori.
Elio Germano dà nuova prova della sua versatilità, così finora non si era mai visto: un Pr non troppo intelligente, falso come il denaro falso, voltafaccia e codardo, viscido e insopportabile. E poi Adamo Dionisi, capofamiglia Rom, usuraio; uno che il fondo l’ha toccato da un pezzo e ci sta pure bene, uno che minaccia una donna con un coltello e se ne frega se nello stesso posto e momento ci sono dei bambini. Sono tutti personaggi negativi, quelli di Suburra. Sollima li racconta senza pietà ma anche senza retorica e moralismi di sorta. E non c’è assoluzione, lungo questo binario marcio che da Ostia conduce dentro ai palazzi del potere capitolini. 130 minuti, signori. Di tensione. Di malessere, per certi versi. Di grande benessere, per altri. Perché il cinema italiano è anche questo, vivaddio. Ci sono tutti i presupposti affinché il riscatto cominci davvero. Non ci manca nulla, proprio nulla. Sollima lo dimostra. Ci scappa pure un “grazie”.
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