Giulio Base fa cinema e televisione da una vita. Da una vita sta dietro e davanti la macchina da presa. Ha studiato con quel gigante di Vittorio Gassman, con lui ha debuttato come attore teatrale e diversi anni dopo l’ha diretto nella commedia La bomba girata a New York City (1999), in cui recita anche suo figlio Alessandro. A dirla tutta, Base ha guidato Alessandro Gassman la prima volta nel ’97 per il film Lovest, di cui è anche interprete e del cui cast fa parte pure Gianmarco Tognazzi; quest’ultimo era già nel cast di Crack, lungometraggio che ha segnato l’esordio di Base alla regia e che è stato riconosciuto Miglior opera prima al Festival di San Sebastian in Spagna. Intrecci di nomi, di storie, pellicole. Una generazione appassionata della Settima Arte nella sua accezione più romantica e nei suoi percorsi forse più difficili. Sono tanti i titoli da associare al nome di Giulio Base; impossibile non citare la fiction dedicata a Padre Pio che vede Michele Placido nei panni del Santo, doveroso sottolineare che sua è la regia di numerosi episodi di Don Matteo. Base recita e continua a recitare, intanto. Il suo volto è apparso – tra l’altro – ne Il Portaborse di Daniele Luchetti, in Teste rasate di Fragasso, ne La lingua del santo di Mazzacurati, nelle serie Tutti pazzi per amore e Una grande famiglia. Il suo impegno più grande, la sfida che sempre lo attrae nelle sue forme più svariate, resta però la regia. E allora ecco che dopo Il pretore, tratto dal libro Il Pretore di Cuvio di Piero Chiara, protagonista Francesco Pannofino (premio Kineo per la Miglior sceneggiatura), Giulio Base torna nelle sale – dal 27 novembre – con Mio Papà. Con un cast composto da Giorgio Pasotti, Donatella Finocchiaro, dal piccolo quanto portentoso Niccolò Calvagna. E da Fabio Troiano, Ninetto Davoli ed Emanuela Rossi.
Pasotti è anche autore del soggetto, l’idea è nata da un incontro su un treno fra lui e Base e dalla decisione di raccontare qualcosa che entrambi hanno sperimentato sulla propria pelle: la forza e allo stesso tempo la fragilità dei cosiddetti “affetti legali”, ovvero quelli che non sono riconosciuti dalla legge nonostante corrispondano a qualcosa di quotidiano, tangibile fondamentale. Pasotti interpreta Lorenzo, sommozzatore dallo spirito libero che vede la propria esistenza rivoluzionata dall’incontro con Claudia (la Finocchiaro) e da suo figlio Matteo (Calvgana): i tre, col tempo, costruiscono una sorta di famiglia la cui unione è però minacciata dalla mancanza di tutele. Scelto per inaugurare la sezione Alice nella Città nell’ambito dell’ultimo Festival del Cinema di Roma, il film è stato accolto fra applausi e commozione. E la Rete è subito diventata cassa di risonanza di tale consenso.
“Mi scuso se bombardo coi retwitt di buone critiche sul mio film ma nei decenni ho preso troppi sputi e tutte queste carezze mi sbigottiscono“: l’hai scritto su Twitter proprio mentre ti riempivano di complimenti, perché?
Faccio film da 25 anni, i primi sono stati accolti con critiche al limite dell’insulto. Certo, io ero un po’ diverso rispetto ad oggi, anche arrogante; però mi hanno davvero maltrattato e non per poco tempo. Ringrazio Dio perché faccio e continuo a fare ciò che ho desiderato fin da bambino, ma davvero troppe volte sono stato sputazzato dagli addetti ai lavori o, nella migliore delle ipotesi, accolto con un “buffetto”. Ecco perché tutto questo calore mi ha quasi spiazzato.
Un simile inizio avrebbe messo a dura prova chiunque: come si fa a trovare la forza di resistere?
Innanzi tutto, quando poi costruisci una famiglia devi resistere per forza. Non sei più soltanto “tu”. Poi sarà stato grazie alla mia formazione etico-morale diversa rispetto a quella di molte persone che appartengono al mondo del cinema e della tv. I miei esempi e i miei modelli sono diversi, la vera resistenza per me è quella che facevano i martiri che poi venivano crocifissi. Queste, in confronto, sono sciocchezze.
La critica cinematografica guarda con un certo snobismo a chi fa anche prodotti per la tv?
Sicuramente, e io non ne sono immune. Viviamo in un Paese in cui troppo spesso la parola entertainment è sinonimo di “parolacce” e certi comportamenti sono conseguenziali.
In questo momento storico è in atto il riscatto della commedia italiana, tu rappresenti una sorta di voce fuori dal coro anche e soprattutto per le tematiche che tratti: possiamo definirti un regista di nicchia?
Guarda, voglio essere sincero al cento per cento: io la commedia la farei anche domani! (ride, ndr)
Ok, allora diciamo che sei di nicchia tuo malgrado… Resta il fatto che Mio papà è un film coraggioso.
Sì, questo sì. Questo me lo prendo tutto, perché non è stato facile raccontare una storia simile.
Il messaggio contenuto è più una provocazione oppure un invito?
Direi un invito. L’invito a capire che i veri genitori non sono quelli carnali ma coloro che crescono i figli, a imparare a essere genitori nel senso più pieno del termine. Ad affrontare una questione così diffusa e delicata, ma ancora trascurata.
Il soggetto è firmato dallo stesso Pasotti.
Giorgio ha accettato di mettere in scena la sua vicenda personale. Me l’ha raccontata, è nata l’idea, poi abbiamo sommato le nostre esperienze e deciso di farne un film.
Perché è stata scelta Donatella Finocchiaro per il ruolo della madre?
Perché serviva una donna che fosse tale a tutti gli effetti. Un’attrice appartenente al cinema d’autore ma anche estranea a qualsiasi forma di psicosi. Una donna vera, non problematica.
Ti piace questo tuo film?
Ho imparato a essere soddisfatto soltanto quando, una volta uscito il film, vedo numeri positivi. E’ l’unica variante veramente valida, anzi l’unica che c’è. Le critiche vanno e vengono, non sono determinanti. Determinante è la risposta del pubblico. Perché questo mestiere esiste soltanto in funzione del pubblico.
La presenza al Festival di Roma e quell’accoglienza però sono stati due traguardi significativi.
Sì, certo, ma ripeto: i numeri sono la cosa più importante.
Sei molto severo con te stesso. Anche spietato, direi.
So come funzionano le cose, tutto qua. E so che, dal modo in cui funzionano le cose, dipende anche il mio domani. Io racconto storie. E devono esserci i presupposti affinché continui a raccontarle.
Cinema o tv: cosa preferisci fare?
Non scelgo, non so scegliere né da professionista e neppure da spettatore. Dipende da una serie di fattori, a cominciare appunto dalla storia.
Preferisci i panni di regista o quelli di attore?
Qua posso dare una risposta più netta. Se il Signore mi ha dato un talento, è la regia. Una grandissima fatica e responsabilità, certo, ma anche la cosa a cui mi sento più vicino e che mi permette di esprimermi meglio. La regia è il mio mestiere. Fare l’attore, per me, è invece più un divertimento: ti metti una maschera, sei un altro, poi un altro ancora. Alla fine è sempre un gioco.
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