Tipo particolare, Tom Hardy. E’ considerato un sex symbol, ma pare che la cosa non la sfiori nemmeno. Ama e ha amato le donne, è padre di un bel bambino, è fidanzato da diverso tempo ma con estrema serenità ha detto di aver vissuto esperienze omosessuali negli anni della giovinezza. Anni in cui ha fatto pure i conti con problemi di alcolismo e dipendenza da crack. Nel 2003 s’è ripulito completamente, da allora è stato alla larga dai guai e la sua carriera d’attore non s’è più fermata. Anzi. Hardy ha infilato un traguardo dietro l’altro, recitando in film come Inception, Il cavaliere oscuro, Lawless. E il 30 aprile arriva nei cinema italiani Locke, pellicola diretta da Steven Knight che ha ottenuto notevoli consensi all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Perché? Perché Hardy ha superato se stesso, reggendo da solo un racconto di quasi novanta minuti ambientato nell’abitacolo di un’automobile. Ci vuole talento. Ci vuole fegato.
Knight voleva realizzare questo thriller, raccontare la storia di un uomo che, dopo aver lavorato come un matto per lunghi anni, è giunto a un passo dalla più importante occasione professionale ma riceve una telefonata che cambia tutto, mettendo a repentaglio non solo la sua carriera ma anche il futuro della sua famiglia e il suo stesso equilibrio interiore. Ivan Locke – questo il nome del protagonista – scopre di aspettare un figlio da una donna che per lui rappresenta ben poco. Deve decidere, deve prendersi le sue responsabilità oppure ignorarle. Non sta bene, anzi sta proprio da schifo.
Dovrebbe tornare a casa, dove i suoi cari l’aspettano ignari di tutto, ma non lo fa. E non si reca neppure al cantiere dove l’attende quell’incredibile chance. Guida, Locke. Cercando disperatamente un modo per salvare la situazione da ogni punto di vista. Senza creare danni troppi grandi. Guida e pensa. Parla più volte al telefono, facendo l’equilibrista sul filo della sua esistenza. In bilico fra la verità e la menzogna, fra i rimpianti e la rabbia nei confronti di se stesso, fra la paura e un coraggio che da qualche parte dev’essere tirato fuori. Parla anche da solo, Locke. Parla coi suoi demoni. E intanto Hardy dà il meglio di sé.
Locke non è un film per tutti, questo sia chiaro. Ma è un appuntamento irrinunciabile per chi sa apprezzare le sceneggiature che non sbavano, le reali capacità attoriali, le sfide davanti all’occhio della cinepresa, i racconti che mirano al cuore percorrendo vie distanti da quelle tradizionali. La morale c’è ma non pesa, non dà fastidio, non annoia. E’ un messaggio che cattura l’attenzione. Così come cattura lui, Tom, e quasi è incredibile come gli occhi e l’attenzione restino catalizzati nonostante una certa innegabile claustrofobia. L’esperimento è riuscito, senza dubbio e al di là dei gusti personali. Non era impresa facile. Affatto.
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