Piergiorgio Casotti, “Arctic Spleen”: la Groenlandia e i tentati suicidi

VANESSA CROCINI DA LOS ANGELES – La fotografia concepita come viaggio investigativo della propria persona ha portato Piergiorgio Casotti a sviluppare uno stile e delle tematiche molto forti e intense. Fotografo e documentarista, Casotti sta per presentare il suo lungometraggio Arctic Spleen al Trieste Film Festival che si terrà dal 17 al 22 gennaio a Trieste. Il film, presentato come “work in progress” l’anno scorso allo stesso festival, si è aggiudicato il Premio Corso Salani, un finanziamento per poter finire il film. Abbiamo incontrato Casotti a Los Angeles, durante gli ultimi ritocchi alla post produzione di Arctic Spleen, che affronta una tematica molto forte ma poco conosciuta: il più alto tasso di suicidi al mondo in un posto estremo come la Groenlandia.

Come hai iniziato la tua carriera?
La mia carriera da fotografo è iniziata nel 2004/2005. Non avevo mai preso una macchina fotografica in mano e ho deciso di andare a New York per frequentare dei corsi. Ho fatto qualche esperienza come assistente, nel campo della moda e della ritrattistica. Poi nel 2007 ho realizzato i miei primi reportage in Kurdistan e in Turchia, in Iraq, in Iran e in Armenia. All’inizio non ero molto soddisfatto, perché non avevo trovato ancora un mio stile. Ero ancora molto influenzato da foto che avevo visto.

Come hai dato una svolta al tuo lavoro?
Nel 2009 è arrivato il reportage fotografico Arctic Spleen. Era una fotografia molto più personale, fatta attraverso le mie sensazioni, più istintiva, grezza, che non doveva interessare necessariamente qualcun altro. Arctic Spleen è la mia prima opera che mi ha molto soddisfatto. Sono andato in Groenlandia senza sapere quello che avrei fotografato e ho deciso di cimentarmi nel video per sperimentare un multimedia project per internet. La Groenandia ha il più alto tasso di suicidi al mondo, è un luogo estremo, un posto deserto, freddo che mi attraeva. Da un punto di vista geografico era l’ideale perché mi isolavo e avrei potuto esplorare le problematiche per guardare dentro me stesso.

Poi Arctic Spleen è diventato un documentario corto e poi un lungometraggio.
Insieme alle foto ho iniziato a girare ogni volta pochi secondi di video, che non avevano nessuna pretesa. Invece poi mi sono reso conto che anche il materiale girato conteneva immagini forti e le interviste erano incredibili. L’idea del progetto multimediale quindi è diventata un corto che ho messo insieme dopo tutti i viaggi successivi. Nel settembre 2010, dopo aver terminato il corto, un mio caro amico groenlandese si è suicidato e allora ho capito che il mio lavoro non era finito. Volevo dare ancora voce a queste storie che avevo collezionato.

Quali sono state le difficoltà che hai affrontato?
Ho fatto sei viaggi in Groenlandia nel corso di quattro anni. Una delle difficoltà maggiori è stata la lingua: non parlo il danese né il groenlandese e loro parlano poco l’inglese. Nelle interviste era difficile perché avevo davanti un popolo poco loquace. Anche gli spostamenti d’inverno sono difficoltosi, in elicottero o con i cani da slitta. Loro non pianificano niente, perché vivono nell’incertezza anche delle condizioni meteorologiche. Ma il mio approccio fotografico era poco strutturato quindi si associava bene.

Una giornata tipo in Groenlandia.
Io vivevo con i soggetti delle mie fotografie e dei miei video. Mi svegliavo e aspettavo quei 5/6 amici per vedere quello che facevano, spesso perdevo la cognizione del tempo. Per esempio d’estate andavo a letto alle tre o alle quattro del mattino perché c’è luce 24 ore su 24 e ciò disorienta; d’inverno, invece, ci sono 24 ore di buio. Dove la pazzia è vicina, il suicidio è un conforto. Sembra strano ma lì le stagioni cambiano tanto come le persone. Alcuni guardano la televisione 24 ore su 24, e io di conseguenza aspettavo che succedesse qualcosa e spesso non succedeva proprio niente. Loro giocano a carte o al computer, vanno a trovare qualche parente. Io semplicemente stavo con loro. Andavo a ballare in discoteca il sabato sera e quello era un momento particolare: vedevo che in qualche maniera si lasciavano andare perché si ubriacano, dunque avevo tante occasioni per filmare e fotografare. A livello culturale, il raffronto spesso è stato complicato: i groenlandesi sono molto disordinati, la casa è per loro un luogo primordiale, buttano tutto per terra e ogni due o tre giorni si pulisce. Un caos completo.

Qual è stato il tuo approccio per le interviste per un argomento così delicato?
Molte interviste sono state improvvisate, dopo qualche chiacchiera. A parte il problema della lingua, era difficile perché vedevo che ognuno di loro non rispondeva in maniera strutturata. Si passava da un argomento all’altro in continuazione. Sapevo che qualcuno di loro aveva provato a suicidarsi e tutti conoscevano qualcun altro che lo aveva fatto. Inoltre l’audio è sporco e molte domande mi venivano in mente dopo, perché era come se non fossi mai preparato. Le riprese che facevo mi sembravano lunghissime ed invece magari erano solo di 20 secondi. Oggi so che farei delle riprese di minuti interi.

Come è arrivato il lungometraggio?
Ho conosciuto la montatrice Nadia Fugazza (leggi l’intervista di Velvet Cinema) che conosceva già i miei reportage fotografici. Abbiamo riguardato tutto il materiale insieme, abbiamo pensato a una struttura narrativa e messo insieme i pezzi lo scorso giugno. La mia voce fuori campo è la guida del documentario. Considerate le interviste frammentate e la loro mancanza di coerenza, c’era la necessità di congiungere bene questi pezzi. Una delle cose che volevo nel documentario è l’assenza di una evoluzione dei personaggi nel film. Sarebbe stato monotono seguirli e basta, perché queste sono persone che hanno tentato il suicidio ma hanno una vita fin troppo normale. E non volevo perdere il carattere globale della comunità percepito in questo viaggio.

All’inizio del tuo film parli di “libertà claustrofobica”.
Quest’ossimoro è fortissimo, così come tutto il testo della mia voice over. Questa espressione secondo me riesce a dare l’idea della destrutturalizzazione che riflette queste persone. Lo stesso concetto è nelle mie fotografie. Volevo dare un approccio più emozionale e meno didascalico del suicidio, senza dover facilitare la lettura del film o delle foto o del libro stesso che poi è venuto dopo.

Come ti ha cambiato questo progetto a livello personale e professionale?
Ho capito che posso non seguire dei format, sia nel video che nella fotografia, perché le cose vere, quelle più personali, vengono fuori in maniera naturale. La fotografia continua a rimanere il mio primo interesse. Ho delle idee per altri documentari, anche se non escludo progetti narrativi e ovviamente altri reportage fotografici che possano beneficiare del mio stile sanguigno e destrutturato.

Foto by V.C.

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