Antonio (Filippo Timi) parte dall’Umbria per raggiungere un ospedale oncologico di Milano con suo figlio, il piccolo Pietro, malato di tumore al cervello: durante le settimane di ricovero che precedono l’intervento, Antonio – scontroso e diffidente, fino a sfiodare la maleducazione – deve confrontarsi con gli altri pazienti dell’ospedale, tra cui l’adolescente Jaber (l’esordiente Jaouher Brahim) che si trova lì per assistere l’amico Youssef, malato di cancro. Dopo diversi tentativi di avvicinamento da parte del giovane di origine araba, Antonio comincia ad aprirsi e a fidarsi di lui e comprende come affrontare la difficile esperienza della malattia del piccolo Pietro.
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“I corpi estranei”, presentato in concorso all’ottava edizione del Festival internazionale del film di Roma, è una pellicola che affronta diversi temi con uno sguardo delicato e sensibile, quello del regista Mirko Locatelli, capace di racchiudere nel film diverse tematiche, da quella del razzismo nei confronti degli stranieri e della loro cultura, a quella della sofferenza e della malattia, che però, “diventa solo un pretesto”.
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“Siamo partiti da un’immagine. Mia moglie (Giuditta Tarantelli, co-sceneggiatrice e co-produttrice del film) mi ha sottoposto un uomo solo con in braccio un bambino in un reparto di oncologia pediatrica. Intorno a questa immagine abbiamo creato una storia, puntando sulla fragilità dell’adulto che à anche più forte di quella del bambino. Insomma, volevamo parlare della solitudine del papà in un film non sul dolore ma appunto sulla fragilità“, ha spiegato Locatelli durante la conferenza stampa di presentazione del film.
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Ottima l’interpretazione di Filippo Timi, che ci ha abituati a ruoli intensi e drammatici e qui sfodera tutta la sua capacità di immedesimarsi nei panni di un uomo semplice, ma allo stesso tempo in continua evoluzione. “Antonio è uno gretto, un umbro incapace di aprirsi al mondo, ma che, grazie a questa trasferta a Milano, deve confrontarsi con delle cose che lui non conosceva”, ha spiegato il protagonista, che ricorda anche un episodio della sua infanzia. “Da bambino ho avuto anche io un’esperienza d’ospedale. A sei anni mi portarono infatti a Pisa perchè zoppicavo e mi regalarono la prima scatolina di Lego. Poi ho scoperto, a trenta anni di distanza, che pensavano avessi un tumore alle ossa. Comunque questo è il film più documentaristico che ho fatto e, devo dire, anche per questo non mi sono mai preoccupato di recitare. Ho cercato di essere solo naturale, me stesso”, ammette.
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