VANESSA CROCINI DA LOS ANGELES – Nadia Fugazza, novarese di origine, vive a Los Angeles da 20 anni. Dopo aver studiato alla prestigiosa University of Souther California e fatto molte esperienze in televisione, nella pubblicità e su film indipendenti hollywoodiani, si sta concentrando sempre di più su documentari un po’ scomodi, storie politiche di guerre civili e di racconti molto personali. Una sensibilità molto forte e soprattutto il bisogno di raccontare e conoscere i fatti per come sono davvero senza aver paura di affezionarsi troppo ai protagonisti le cui storie hanno cambiato il suo modo di pensare.
Come hai iniziato?
Nel ’94 mi sono trasferita a Los Angeles per studiare cinema all’Università, senza però sapere cosa avrei fatto di specifico. Tutti gli anni dovevamo fare sostenere esami di produzione, produrre dei cortometraggi. Siamo partiti con il Super 8, poi 16mm e poi 35mm; la cosa bella è che ho avuto la possibilità di montare i film dei miei amici. Io avevo molta più pazienza di loro nella fase di edizione e, visto che non mi interessava girare, mi occupavo appunto del montaggio. Mi piaceva creare la storia e, proprio perché si lavorava con pellicola, le scelte dovevano essere precise: una volta fatto il taglio, non si tornava indietro. Mi piaceva l’aspetto molto tattile del montare.
Quali sono state le tue prime esperienze lavorative come montatrice?
Sono stata molto fortunata perché il giorno dopo la laurea ho iniziato a lavorare per il canale americano CBS: mettevo gli spazi di nero tra un programma ed un altro nell’intervallo pubblicitario. Poi sono passata a fare l’assistente al montaggio; ho avuto una bravissima mentor che mi ha insegnato tantissimo, Amy Duddleston, montatrice di molti film tra i quali Psycho di Gus Van Sant. Ho imparato una cosa molto importante da lei: la dignità nel lavoro. Molto spesso, nel caso dei film hollywoodiani, il capro espiatorio è il montatore. Il primo a essere licenziato se il lavoro del regista non fila liscio. In quel caso, capita che venga chiesto agli assistenti al montaggio di diventare montatori. Io ho saputo dire di no, perché tutto quello che avevo imparato lo dovevo proprio a lei e passare di grado nella mia carriera grazie al suo licenziamento non era giusto. Non mi sono mai pentita di quella scelta.
Come ti sei appassionata di documentari?
Dopo aver fatto un corso di gorilla filmmaking a scuola, ho capito che due cose mi affascinavano particolarmente nel montare un documentario rispetto ad una storia di finzione: l’improbabilità, perché la storia può cambiare facilmente e si evolve sempre, e la limitazione nel lavorare con materiale che avevi a disposizione e che non poteva più essere ricreato. Devi tirare fuori una storia da quello che hai, senza il lusso di rigirare. E poi c’è un elemento di manipolazione che è molto importante soprattutto se stai facendo un documentario politico. Devi tenere conto che non sempre i colpi di scena funzionano, devi tenere fede ai fatti che sono successi o a statistiche che vanno sempre verificate. Penso di avere in me un po’ della giornalista e dell’attivista.
Parlaci del documentario che hai appena finito di montare, “I Will Find You”
Racconta della guerra civile in Nepal e di come il Governo ha rapito e sequestrato, com’era successo in Cile negli anni ’70, una serie di persone accusate di far parte di un partito politico rivoluzionario. Sono state sequestrate 15,000 persone dal Governo, che naturalmente ha sempre negato un suo coinvolgimento in questi eventi. Tra questi prigionieri, circa 200 sono riusciti a tornare a casa rendendo testimonianza per poter aiutare i familiari di coloro che invece sono ancora dispersi. La regista ha fatto una tesi sul Nepal e conosceva molto bene la situazione politica del Paese. Siccome non voleva essere nel documentario, ho cercato di fare una struttura senza di lei, ma la storia partiva proprio dai suoi eventi personali: anche suo nonno della regista era stato prigioniero politico in Cile. Quando ho iniziato il montaggio avevo a disposizione sei anni di girato, con tutti format di telecamere possibili. Molte zone del Nepal erano isolate e pericolose, e la regista aveva comprato delle telecamere da dare ai soggetti. Una volta al mese riceveva le videocassette o mini DV e le catalogava. Siamo poi andati in Nepal nel gennaio del 2012 per girare le ultime scene che mancavano con la regista stessa e l’ho convinta a fare una narrazione in prima persona.
Qual è stata la cosa più bella di questa esperienza?
La possibilità di incontrare gli abitanti di quei luoghi. In Nepal sono stata ospite nelle loro case, ho mangiato con loro e osservato il loro modo di vivere. E’ un lato umano molto forte del mio lavoro e mi ha cambiato profondamente.
A cosa stai lavorando adesso?
A un documentario girato da un fotografo italiano su un problema molto ignorato in Europa. Nella Groenlandia dell’Ovest c’è il più alto tasso mondiale di suicidi adolescenziali, per cui stiamo esplorando le cause di questo fenomeno. Si tratta di uno dei posti più isolati del mondo e quindi nessuno se ne cura.
E’ diventato uno stigma per te lavorare su documentari politici?
Dipende sempre dalle tematiche, ma quello che conta per me è non fare un documentario solo per certi esperti in materia che alienerebbe il film, escludendolo da una grande fetta del pubblico. Quando racconto una storia “scomoda”, cerco piuttosto di farlo per quel pubblico che non ne ha mai sentito parlare. L’argomento deve essere in qualche modo universale e raggiungibile da tutti: in questo credo consista la bravura di un regista e di un montatore.
Qual è un progetto che vorresti concretizzare al più presto?
Mi piacerebbe montare un film di azione, qualcosa di molto lontano dal documentario, un po’ alla Bourne Identity. Mi piacciono molto le scene di inseguimento o le scene di rapina… E poi, se devo essere sincera, sono in molti a dirmi che potrei buttarmi nella regia. Penso che per un montatore sia un processo abbastanza naturale, ma ancora non ho questa urgenza.
Quali sono alcuni dei documentari preferiti?
Ho una profonda stima e rispetto per Werner Herzog, perché è uno degli autori all’antica ma fa film moderni e sempre con una certa autoironia. Uno dei suoi film che preferisco è Encounters at the End of the World, girato nell’Antartico. Herzog riesce a mostrare lati della natura umana che sono molto animali.
Un consiglio a giovani montatori.
Consiglio di guardare un film a testa in giù, perché vedi tutti i tagli del montaggio e se c’è qualcosa che non va, lo noti subito. Il problema del montatore è che se il pubblico è consapevole del montaggio, significa che non ha fatto bene il suo lavoro perché il suo ruolo deve essere impercettibile.