Pensandoci bene – ma in fondo non c’è bisogno di riflessioni troppo accurate – la caratteristica più interessante di Giovanni Veronesi è la perfetta convivenza del bianco e del nero: nei suoi sguardi, nei gesti, nelle parole. Nei suoi film. Perfino nel suo profilo Twitter. Bianco, quando dà forma a geometrie romantiche, palpitanti, imbevute di nostalgia. Quando lascia emergere il cuore fra sfumature di dolcezza e fragilità. Nero, quando affila le armi contro chi non gli sta bene, contro gli eventi che lo indignano, i bocconi che non vanno giù. Veronesi ti guarda, ti lascia avvicinare e, magari, un attimo dopo non esisti più perché c’è un nuovo pensiero da inseguire. Una folgorazione. L’ispirazione. Poi ritorna e mette tutto a posto. E’ un artista, un uomo complesso. Eppure sa diventare estremamente semplice.
E’ un uomo di cinema, anche. O meglio: prima di tutto. Il cinema, lui, lo fa da sempre. Come sceneggiatore e regista, all’inizio pure come attore. Quando è arrivato il successo, non s’è scomposto più di tanto. Ha scelto di restare così, genuino. Un po’ allergico ai riflettori, amante della tranquillità e del suo mondo privato. Toscano doc, Veronesi ha scritto film per Francesco Nuti, Leonardo Pieraccioni, Carlo Verdone. Quest’ultimo l’ha anche diretto in pellicole amate da pubblico e critica come Manuale d’amore e Italians, e allo scoccare dei suoi ciak sono entrati in scena altri solidi talenti fra cui Sergio Castellitto, Diego Abatantuono, Valerio Mastandrea, Elena Sofia Ricci, Margherita Buy: la lista è lunga. Grazie a Nuti, poco più che ventenne Giovanni Veronesi ha conosciuto Vincenzo Cerami: figura determinante nella sua vita e nella sua carriera. E la sua scomparsa, qualche giorno fa, si è subito aggiunta alla lista delle ferite dal sapore quasi indefinito.
“Devo a lui tutto quello che so”, hai detto di Cerami. Una frase importante.
E’ la verità. Auguro a tutti di trovare una persona disposta ad aiutare così tanto senza chiedere nulla in cambio. Cerami mi ha quasi adottato, mi ha ospitato a Roma per un anno, mi ha insegnato tutto.
Come vi siete conosciuti?
Tramite Francesco Nuti: cercava uno sceneggiatore bravo per Tutta colpa del Paradiso e ha chiamato lui. Siamo stati un mese a scrivere nella sua casa di Sabaudia, quella casa in cui andava anche Pasolini (Cerami fu suo allievo e sposò la cugina Graziella Chiarcossi, ndr); la ricorderò sempre come un’esperienza splendida.
Al di là del sodalizio professionale, non vi siete più persi di vista.
No. E’ rimasto un punto di riferimento, la persona a cui chiedere aiuto e consigli per qualsiasi cosa.
Perché “scelse” proprio te?
Non credo ci sia un motivo preciso… Forse perché il talento si riconosce. Ci siamo annusati. Sono cose che accadono. E poi il nostro stile è sempre stato simile; abbiamo la stessa ironia feroce, il sarcasmo. Mentre tutto il mondo si prodigava per essere più buono, noi facevamo la parte dei fustigatori dell’amore (sorride, ndr). Che poi stiamo parlando dell’apparenza: conoscendolo, Cerami era una persona molto gentile.
A proposito dell’ironia feroce che tu stesso ammetti di avere: ci fai o ci sei?
Mah, guarda… E’ anche un gioco. E’ la voglia di non censurarsi. Ma il discorso è lo stesso: posso sembrare cattivo, poi apro la porta a un sacco di gente. La cattiveria è un’altra cosa. E poi l’ironia serve nel mio lavoro anche per raccontare l’altra faccia della medaglia quando, per esempio, si parla d’amore. Per rendere più credibili i personaggi.
… Poi, però, arrivano certe scene d’amore indimenticabili. Lo sai che quella di Verdone, quel famoso “Ne è valsa la pena”, su Youtube fa ancora migliaia e migliaia di visualizzazioni?
Beh, a volte i miei personaggi sono come vorrei essere io. Dicono le frasi che avrei voluto dire io, che ho pensato; hanno il coraggio che non ho avuto io. E’ un modo per esorcizzare certi stati d’animo, anche. D’altra parte, il mio compito è costruire cose che non avverranno ma che potrebbero avvenire. So che quella scena è molto amata, sì. E’ diventata un “simbolo” dell’amore, per certi versi. Bizzarro, perché invece è la storia di un tradimento…
“C’è la neve nei miei ricordi, c’è sempre la neve. E mi diventa bianco il cervello se non la smetto di ricordare”: versi tuoi?
E’ l’unica poesia che ho scritto in vita mia.
Non solo cinema: sarà tua la regia di una serie tv dedicata ad Ambrogio Fogar.
Rincorro quel personaggio da anni, avrei voluto fare un film ma poi mi sono reso conto che non basterebbe per raccontare tutto. Una serie tv, magari con protagonista Kim Rossi Stuart, sarebbe un buon compromesso per fare televisione.
Giri anche videoclip musicali e hai carissimi amici nel mondo della musica.
I miei carissimi amici sono 3: Gianna Nannini, Giuliano Sangiorgi ed Elisa. Gianna la conosco da una vita, la guardo vivere e mi sembra di assistere a una lezione d’università. E’ una leader nata e molte cose le fa inconsciamente. Non c’è traccia di superbia in lei. Elisa ha realizzato la colonna sonora del mio nuovo film, L’ultima ruota del carro: assolutamente strepitosa. Giuliano è un fratello. Saremmo stati amici anche se non ci fosse stato di mezzo il successo. E’ una questione di alchimia, è un sentire comune.
L’ultima ruota del carro è un film corale che però ruota intorno a Ernesto, uomo comune, e tramite lui attraversa trent’anni di storia italiana.
La protagonista di questo film è l’onestà. Ernesto è una figura reale, ha scritto la storia con me. E’ l’esempio della “mosca bianca” in mezzo alla corruzione e alla devastazione etico-morale che caratterizza l’Italia degli ultimi decenni. E’ l’eccezione, è la normalità, quella lealtà venuta a mancare mentre tutti noi ci siamo impantanati: mi sembrava giusto rendere questo omaggio.
Mettendo insieme cast così “ricchi”, non c’è il rischio che si crei troppa competizione?
No, perché sono bene assortiti e ciascuno si è concentrato sulla sua parte. Ritengo che la cosa più importante non sia trovare gli attori bravi in senso assoluto, ma gli attori giusti per un ruolo. A quel punto, diventano anche bravi. E poi un po’ di sana competizione fa bene a tutte le gare.
Parli spesso della scomparsa dei tuoi genitori. Mostri il dolore, a volte sembra emergere tanta rabbia: è una ferita che non si chiude?
Non è una vera ferita, in realtà. Direi piuttosto che sono ancora sorpreso. La morte non è dolore ma un’enorme e improvvisa… sorpresa. E’ incredibile come, da un momento all’altro, una persona non ci sia più. Ce ne saranno altre, nello stesso posto, ma quella no. E questo mi sorprende, sì. Anche perché ero profondamente innamorato di loro. La sorpresa, poi, può assumere una forma dolce, romantica, a volte anche rabbiosa.
Mai pensato di fare un film su queste tue considerazioni?
Mi piacerebbe, ma si tratta di temi universali quanto difficili. E non voglio essere un presuntuoso. Il cinema non va fatto tenendo i piedi per aria, altrimenti rischi di cappottare. I piedi devono restare per terra, sempre. E poi io non sono così complicato. Sono basico. E racconto cose basiche.
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