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Categorie: Interviste

Paolo Genovese: “Non potrei mai stare lontano dal set”

Paolo Genovese racconta storie. Anche gli oggetti intorno a lui raccontano storie: un vecchio sacco da boxe in pelle marrone, trovato in un magazzino e che chissà quante ne ha prese; un lungo tavolo di ferro pronto ad accogliere qualsiasi anima, tracce di voci e mani invisibili eppure evidenti. E quel pezzo di stoffa con su stampato la faccia di Audrey Hepburn, le poltrone chiare che sembrano arrivate direttamente dagli anni Settanta, foto su un muro bianco che hanno fermato per sempre spezzoni di vita bella. Oggetti, tanti oggetti vicinissimi fra loro eppure rispettosi del proprio spazio e tempo. Un incrocio fra passato e presente denso di armonia, una ricerca mossa – è chiaro – dalla curiosità e da un senso di poesia. Genovese parla con calma. E’ fra i registi italiani più quotati del momento, ma nulla nei suoi modi rivela qualche forma di distanza o distacco. E’ gentile. Riservato, questo si capisce subito. Ma appassionato, assolutamente innamorato del suo lavoro, e star lì ad ascoltarlo diventa subito una cosa naturale. Necessaria, per certi versi.

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Una laurea in Economia e commercio, un passato da pubblicitario, è diventato regista “per caso, cominciando a giocare con i cortometraggi insieme a Luca: nessuno di noi due pensava che sarebbe stato il nostro mestiere”. Invece è accaduto. Regia, ma anche sceneggiatura. Il sodalizio con Luca Miniero è durato un decennio e ha dato frutti come Incantesimo napoletano, Nessun messaggio in segreteria e la miniserie Amiche Mie. Quindi è arrivata la decisione di mettersi alla prova da soli: nel 2010 Paolo ha diretto Aldo, Giovanni e Giacomo ne La banda dei Babbi Natali, un incasso di oltre venti milioni di euro. L’anno dopo è arrivato nelle sale Immaturi, conquistando pubblico e critica; il successo è stato tale che nel 2012 Genovese ha firmato il sequel, Immaturi – Il viaggio. E poi Una famiglia perfetta, tre nomination ai David di Donatello: Migliore attore protagonista a Sergio Castellitto, Migliore attrice non protagonista a Francesca Neri, David giovani allo stesso Genovese. Negli ultimi mesi lui non ha mai smesso di scrivere. E manca poco al suo ritorno sul set.

I tuoi impegni attuali?
Ho da poco finito la sceneggiatura di Un fantastico via vai, scritta con Leonardo Pieraccioni: la regia è sua. Sto terminando la sceneggiatura del film Ti ricordi di me con Edoardo Leo e Ambra Angiolini e anche quella del mio nuovo film; le riprese saranno fra Roma e New York, si comincia ad agosto.

Hai già il titolo e gli interpreti?
Il cast è quasi completo, di certo ci saranno Marco Giallini, Anna Foglietta, Vittoria Puccini e Claudia Gerini. Il titolo è ancora provvisorio: Tutta colpa di Freud.

Un’anticipazione sulla trama?
Si basa sulle vicende sentimentali di tre sorelle e sulla figura del loro padre, che è anche uno psicoanalista. I suoi due ruoli, quello privato e quello professionale, finiranno per sovrapporsi: proprio lì ci sarà il conflitto e dunque il corto circuito. Trovo che la crisi sia sempre interessante, perché crea l’aspettativa di un finale e perché ci si immedesima più facilmente nelle situazioni che in qualche modo sono patologiche.

Quali sono le tre storie delle sorelle?
La prima è una libraia che s’innamora di un ladro sordomuto, la seconda è una lesbica che decide di provare a costruire un rapporto con un uomo e la terza è una ventenne che vive una relazione con un uomo di cinquant’anni sposato. In quest’ultimo caso il fulcro non è la differenza di età, bensì una serie di problematiche che emergono man mano che la vicenda si snoda.

Come scegli gli attori per i tuoi film?
Non c’è una procedura standard, a volte le associazioni fra personaggio e interprete mi vengono in mentre mentre scrivo, altre volte dopo. Avviene tutto in modo poco formale, magari davanti a un caffè. Anche perché preferisco raccontarlo, il film, prima di mandare il copione.

Le tue commedie hanno uno stile particolare: racconti la realtà facendo ricorso alla fantasia o, comunque, a situazioni insolite...
… Non è facile trovare un tema nuovo, ormai sono stati affrontati tutti. Soprattutto con la commedia. Allora io cerco un modo nuovo. Un punto di vista originale che possa rinnovare anche un argomento già trattato.

Sono molti gli attori che vorrebbero lavorare con te: ne sei consapevole?
Sì, e lo trovo molto lusinghiero. Credo di conoscere il motivo: i miei film sono molto recitati, presto massima attenzione ai dialoghi e cura alle scene. Il fatto di avere una buona sceneggiatura, per un attore, è fondamentale. Se quella zoppica, anche il più bravo finisce per perderci.

Ti senti più regista o sceneggiatore?
Per me non c’è una scissione dei due ruoli: quando scrivo una sceneggiatura, immagino le scene. E’ una cosa che mi viene spontanea anche quando scrivo per gli altri. Se sono io a dirigere il film, invece, durante le riprese mi interrogo di nuovo sui dialoghi e magari cambio. O taglio.

Come nascono le tue sceneggiature: hai un metodo?
No, non ho una tecnica acquisita. Cerco di prenderlo come un lavoro, di seguire orari regolari… Sono un artista con orari da ufficio (sorride, ndr). Certo, lavoro con l’intelletto e non con le mani, quindi una certa discontinuità è inevitabile. Ma credo sia giusto bloccarsi se non si è soddisfatti. Preferisco aspettare finché non arriva l’idea… E l’idea, alla fine, arriva sempre.

Finora hai fatto sempre film corali: perché?
Beh, mi piace analizzare una storia da più punti di vista. E sono terrorizzato dalla banalità…

C’è qualcosa di autobiografico nei tuoi film?
Sì e no, nel senso che non farò mai film autobiografici ma, allo stesso tempo, in ogni film c’è un pezzo della mia vita. Che non è necessariamente un’esperienza, ma può essere anche uno sguardo, qualcosa che ho visto, sfiorato, conosciuto.

Quando giri un film, pensi mai all’accoglienza che riceverà?
Beh, sì. Non penso tanto al successo in sé, quanto al gradimento del pubblico. E dei produttori. Se il film va bene, se la gente ama i tuoi film, puoi continuare a raccontare storie. Si è un po’ costretti, perciò, a fare i conti col botteghino: è un termometro necessario.

Raccontare storie ti piace molto… Mai pensato di scrivere un libro?
No, non potrei mai stare lontano dal set.

Sei un “regista amico” o un “registra severo”?
No, severo no. Non sono un tipo da bastone e carota, preferisco la carota e basta. Anche perché, appunto, sono felice di andare sul set, ogni volta. Certo, la sceneggiatura non si tocca, ma per il resto l’atmosfera è sempre molto piacevole. Si lavora, si scherza, si sta bene insieme.

Come sta il cinema italiano?
Il cinema italiano non è supportato; in Italia non esiste una classe politica attenta alla cultura: anche in quest’ultimo periodo non ho mai sentito riferimenti in merito, né da destra e neppure da sinistra. Il cinema, in particolare, è il mezzo culturale per eccellenza, in grado di raggiungere tutti e formare la coscienza comune, eppure sembra quasi dimenticato. E poi c’è il problema della pirateria, che sta distruggendo un’intera industria e una fetta di mercato senza che nessuno intervenga. A parte il fatto che, scaricando i film, ci si disabitua all’opera d’arte, al grande schermo: è come se si leggesse un Bignami.

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Redazione

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