Questo mondo sta cambiando. Forse troppo velocemente. Quando ieri abbiamo letto la notizia che la Disney aveva annunciato la chiusura della LucasArts eravamo quasi restii a scriverne. Ci abbiamo molto riflettuto in queste ore se fosse il caso o meno affrontare la questione. Disney è ormai un universo tentacolare, che abbraccia più settori diversi, non solo il mondo del cinema in senso stretto. La LucasArts era la costola della LucasFilm di George Lucas impegnata nello sviluppo di videogames. E’ giusto parlarne su un sito di cinema? Ci abbiamo pensato su, e siamo giunti ad una conclusione: si, è giusto parlarne. O almeno è terapeutico farlo per chi vi scrive. Dopo l’acquisto della LucasFilm da parte della Disney, era nell’aria l’idea che qualche testa sarebbe rotolata nel complesso delle cosiddette ristrutturazioni interne.
Chi di voi ha più di 20 anni probabilmente avrà attraversato parecchie ore della propria infanzia giocando al computer con i videogame della LucasArts. Il logo animato della casa statunitente ha segnato irrimediabilmente almeno un paio di generazioni di videogiocatori. Una delle basi fondanti del successo della LucasArts furono le cosiddette avventure grafiche “punta&clicca“, con cui probabilmente più di qualcuno di noi ha imparato a maneggiare il mouse, ben prima dell’avvento di Windows 95. C’erano dei personaggi, si puntava il mouse su un punto dello schermo e si dava il comando: “Vai…”, “Apri la porta”, “Raccogli la bottiglia”, “Usa il libro”, “Parla col vecchio”. Tra un inventario di oggetti sempre più vasto, enigmi da risolvere, dialoghi a scelta multipla con altri personaggi del gioco e centinaia di fondali acquerellati, si passavano le ore così. Le avventure grafiche sono state, a cavallo della fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, il genere più in voga dell’intrattenimento casalingo su computer. Chi ne aveva i mezzi economici – al tempo un computer costava svariate milionate di lire – riusciva ad ottenere in dono da genitori e parenti l’agognato PC “per studiare…“. Ai genitori spesso pareva più educativo regalare un personal computer che una console da gioco, vista strettamente come un giocattolo.
Ma lo scopo vero per tutta la nostra generazione che spingeva all’acquisto di un PC era giocare ai videogame. Il resto, imparare il Basic prima e il DOS poi, era solo un mezzo per il fine. E quando gli amici venivano a casa a studiare, in realtà gran parte delle ore venivano spese scambiando i floppy-disc copiati, ricopiando a mano i disegni dulle pagine dei manuali con i codici per superare le protezioni anticopia, giocando e rigiocando le scene preferite dei giochi più amati, alternandosi davanti al computer “un po’ io, un po’ tu“. Prima di internet, prima dei social network, prima del multiplayer, il gioco informatico era ancora un qualcosa di tangibile, era ancora qualcosa di simile ai giochi dei nostri genitori; era ancora un modo per fare amicizia e per crescere, non per sfidarsi a chi ammazza di più l’altro.
Gran parte di questo merito va alla LucasArts. I giochi LucasArts, in buona parte ispirati alle pellicole della LucasFilm, ma spesso anche basati su contenuti originali, sono stati tra gli apripista del genere delle avventure grafiche, genere di cui per un certo periodo hanno incarnato la massima espressione tecnica possibile. Il design che li accomunava all’animazione, colonne sonore di qualità pari se non superiore a produzioni cinematografiche, battute geniali e fulminanti – che magari solo con gli anni, crescendo, riuscivi veramente a capire. Ma soprattutto un universo di personaggi e avventure, enigmi cervellotici e dialoghi serrati. E le storie, storie indimenticabili, ancora oggi avvincenti e che farebbero impallidire qualsiasi film al cinema. Storie talmente belle che “Indiana Jones e Il Tempio di Cristallo“, il quarto film della serie “Indiana Jones“, fa veramente schifo paragonato ad “Indiana Jones e Il Destino di Atlantide“, che tutti noi al tempo chiamavamo “Indy4” in quanto successivo al tie-in “Indiana Jones e l’Ultima Crociata“.
Tra le serie più amate della casa americana, impossibile non citare “Monkey Island“, “Indiana Jones“, “Sam & Max“, “Day Of The Tentacle“, “Full Throttle“, “Grim Fandango“. Ma non dimentichiamo neanche i giochi più rari e complessi, come “Loom” o “The Dig“, quest’ultimo ispirato ad un progetto mai realizzato di un film di Steven Spielberg. E ci pare doveroso ricordare anche tutti i videogame ispirati alla saga di “Star Wars“, con i vari simulatori di volo spaziali “X-Wing” e “Tie-Fighter” che facevano rivivere le scene di battaglia dei film.
Con l’avvento dell’era Windows, e degli sparatutto in soggettiva dopo il boom di “Doom“, il mercato cambiò irrimediabilmente. La LucasArts ha inesorabilmente abbandonato i generi che le avevano donato più di un lustro di successi, e ha provato ad inseguire il nuovo gusto del pubblico emergente. Questa è però storia recente, che non affronteremo. Sappiate che i risultati recenti non sono sempre stati eccelsi, sia per quanto riguarda l’accoglienza del pubblico che le recensioni della critica. Ma sapere che, in qualche modo, qualcosa della vecchia linfa vitale resisteva in spirito era una sensazione confortante.
L’annuncio di ieri della Disney segna la chiusura dello studio, il licenziamento di 150 dipententi e il congelamento dei progetti attualmente in corso, primo fra tutti quello dell’action-adventure “Star Wars 1313“, che ancora adesso campeggia tristemente sulla homepage ufficiale della LucasArts. Proviamo un retrogusto metallico in bocca, così come quando la Disney ha annunciato l’addio al 2D animato.
E’ il mercato, baby. Il moderno che avanza. Arriverà ora la forza del merchandise Disney. Arriveranno fiumi di dollari su prodotti nuovi. Ma l’omino raggiante della LucasArts resterà sempre nei nostri cuori.
(Foto: Kotaku)
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