Oggi corre l’anniversario della morte di un attore comico non solo tra i più grandi, ma tra i più geniali, folli e amati dal pubblico, anche dopo la sua morte. John Belushi ci ha abbandonato all’età di soli 33 anni il 5 marzo del 1982, a seguito di un’overdose di eroina dopo un party allo Chateau Marmont di Hollywood. Fine dissoluta per un artista che nella dipendenza ha sperperato buona parte del suo patrimonio personale, lasciandocene uno artistico ben più grande in cambio.
Nasce nel 1949 a Chicago, da famiglia albanese ortodossa. Secondogenito di quattro figli, ricordiamo suo fratello minore James “Jim” Belushi – che idolatrando John anche lui entrerà nel mondo dello spettacolo. Nel 1963, a 15 anni, conosce al liceo quella che poi sarà la sua compagna di vita, Judy Jacklin. Si sposeranno nel 1975. Durante l’adolescenda si dedica al football americano, alla batteria e alla recitazione teatrale. John aveva un dono fin da bambino: un’espressività unica, e la capacità di far ridere la gente.
Comincia dai palchi del teatro estivo Shawnee di Chicago, nel mentre prova ad affrontare il college, accettando una borsa di studio al DuPage dove per due anni cerca di applicarsi allo studio dell’arte teatrale. Aveva ricevuto anche un’offerta per una borsa di studio sportiva, una prospettiva che probabilmente lo avrebbe lanciato come allenatore nel mondo del football. Ma ormai la sua strada l’aveva scelta. Dietro la guida artistica del professor Payne che crede in lui, affronta le contestazioni del 1968 sulle barricate dei movimenti studenteschi, per poi passare i venerdì sera nei locali dei sobborghi con il trio comico “West Compass Players“.
Entrerà poi nel 1970 nella compagnia “The Second City” con i suoi compagni del trio Tino Insana e Steve Beshekas, con un impatto devastante e rivoluzionario, trasformando il collettivo in una compagnia di commedia, e acquisendo anche in popolarità personale nei teatri di Chicago: le sue parodie di Joe Cocker e di Amleto diventano amatissime dal pubblico. Conoscerà anche altri due amici e compagni di vita per lui fondamentali: Bill Murray e John Candy.
La svolta vera è nel 1973, quando gli viene offerto di unirsi alla rivista comica National Lampoon di New York. Lui e la moglie si trasferiscono nella Grande Mela, e qui inizio un periodo di successi. L’improvvisa esaltazione per i successi e le critiche positive lo portarono anche a non saper affrontare i momenti di calo e la pressione del pubblico: comincia quindi in questi anni la sua dipendenza dalle droghe. Crede che la cocaina lo renda più lucido e bravo sul palco.
Dopo diverse copertine su “Rolling Stone”, nel 1975 si trasferisce a Los Angeles ed inizia una lunghissima carriera nel “Saturday Night Live“. Nello storico programma TV conosce Dan Akroyd e fonda una solida amicizia che li vedrà assime fino alla fine dei suoi giorni. Incrocia sul palco anche Steve Martin e Eddie Murphy. Inizierà a breve la sua carriera cinematografica, di soli 8 film in totale, ma di cui tre sono decisamente da vedere: “Animal House”, “1941: Allarme ad Hollywood” e “The Blues Brothers”
Nel 1978 due eventi fondamentali: il film “Animal House” e la prima esibizione in un concerto dei “The Blues Brothers“. “Animal House” è ormai un cult, e le goliardate del gruppo di dissoluti studenti sono entrate nell’immaginario collettivo di molti. E’ il primo vero film per John Belushi, e il suo ruolo, quasi da comprimario nella trama del film corale, è quanto meno azzeccato alla sua comicità fisica: John “Bluto” Blutarsky è un fuoricorso ingordo, gozzovigliatore e sempre ubriaco. Memorabile il toga parti, imitato da molti studenti ancora oggi.
Nel 1979 esce la commedia demenziale bellica “1941: Allarme ad Hollywood” diretta da Steven Spielberg. Anche qui il suo ruolo è quello di un ubriacone, stavolta nei panni del capitano d’aviazione Kelso, tanto ansioso di ammazzare giapponesi quanto tonto dal farsene catturare. Durante le riprese la troupe ricorda ancora come Belushi appena uscito dal set fosse completamente intrattabile, troppo fatto di droghe e alcol.
Con Dan Akroyd nel frattempo invece ha cominciato ad esibirsi in spettacoli rock blues indossando l’iconico abito nero, con cravatta, cappello e Ray-Ban Wayfarer – prima che il Wayfarer diventasse un’icona hipster, era un’icona blues! Sono Jake e Elwood, i The Blues Brothers. I loro spettacoli sono un misto di brani originali, recitazione e classici del genere. Dopo una travagliata gestazione – Dan Akroyd è alla sua prima sceneggiatura – e un budget in continuo aumento tanto che la Universal ha pensato di scaricare il progetto, nel 1980 esce in sala il film diretto da John Landis, già regista di “Animal House”. Inizialmente fiacco al botteghino, nel corso del tempo diventa un cult multigenerazionale. Un film forse infantile, confuso e cacofonico, ma incredibilmente bello da rivedere e rivedere ancora. La mitica fuga per salvare l’orfanotrofio dei Fratelli Blues è nei ricordi di tutti, così come i duetti con le guest star James Brown, Ray Charles e Aretha Franklin. E poi ci sono “i nazisti dell’Illinois“, volete mettere? In occasione del centenario della Universal, il film è stato riportato in sala in edizione restaurata nell’estate del 2012.
Quello che poteva essere l’inizio di un ventennio di miti, visto il culto nato sulla pellicola “The Blues Brothers“, viene interrotto bruscamente da una morte tanto insensata quanto prevedibile. La dipendenza dagli stupefacenti di ogni genere non poteva che tradursi in quel finale drammatico. Eppure per lui era già pronto l’ingaggio nel cast dei “Ghostbusters“. Il suo ruolo da primo attore sarebbe poi andato all’amico Bill Murray. Ma questo è un altro cult, e un’altra storia.
(foto: Kikapress)