Franny, Richard Gere in Italia per la promozione: “Qua è totalmente ‘casino’!”

Arriva Richard Gere e diventa difficile mantenere in contegno. Arriva Richard Gere alla Casa del Cinema di Roma e i giornalisti – le giornaliste, soprattutto – per lunghi istanti quasi dimenticano di essere tali e diventano semplicemente fan. E allora ecco i telefonini puntati su di lui insieme a sguardi estasiati, e sussurri e pure qualche gridolino. Poi inizia la conferenza stampa per la presentazione di Franny, debutto alla regia del giovane Andrew Renzi, film di cui Gere è protagonista e che sarà nelle sale nostrane dal 23 dicembre, e tutti si ricompongono. Più o meno. Perché lui, Richard, è irresistibile. E’ “tanto”. Fisico asciutto che può far invidia a un trentenne, abito scuro impeccabile e senza cravatta, chioma candida e curatissima, pelle con qualche ruga ma sana. Bella. Invidiabile. E quell’espressione con cui ha messo in ginocchio ko quanti spettatori, un po’ malandrina e al contempo quasi tenera. Gli occhi che quando sorride diventano due fessure, i modi di fare calmi e pacati, un’educazione e una gentilezza estreme. E’ un divo ma non fa il divo, Gere. Proprio per questo si conferma fuoriclasse. Saluta, risponde a tutte le domande in modo esauriente, mentre la traduttrice fa il suo dovere lui sorseggia una tazza di the bollente. Perfettamente a suo agio in mezzo agli italiani che lo divertono perché fanno sempre “casino”. E questa parola la dice proprio così com’è.

Poi si entra nel vivo dei commenti e ci si focalizza sul film. Il titolo coincide col nome del protagonista, una sorta di filantropo ricchissimo che resta vittima della depressione in seguito alla morte dei suoi due migliori amici, pur continuando a fare beneficenza (è anche proprietario di un ospedale). La situazione cambia nettamente quando molti anni dopo quel fatale incidente automobilistico Franny ritrova Olivia (Dakota Fanning), la figlia degli amici scomparsi. E’ sposata con un giovane medico, Luke (Theo James) ed è incinta. Franny entra nella vita dei due giovani, rendendoli oggetto della sua smisurata generosità. Ma la sua presenza, giorno dopo giorno, si fa sempre più pressante. Invadente. E gradualmente emerge anche il segreto che quest’uomo nasconde. Una figura sfaccettata, non c’è che dire. E anche se la sceneggiatura – scritta dallo stesso Renzi – ha qualche carenza, Richard Gere riesce a coinvolgere lo spettatore mettendo in campo una recitazione ricca e intensa. Il grande schermo mostra diversi “Franny”: quello che si lascia andare, quello che rinasce ritrovando tutto il suo carisma, quello debole e quello brillante. Anche quello dipendente dalla morfina. Il risultato è un film godibile, che ammortizza bene gli inevitabili limiti imposti dal basso budget e offre interessanti spunti di riflessione.

Un ruolo piuttosto complesso, quello di Gere. Reso tale, appunto, dalle diverse da articolare: Però “più è difficile, più è divertente”, assicura lui. Per poi aggiungere che “in realtà non c’è nulla di semplice: qualunque personaggio può sembrare semplice ma non lo è“. Conferma che la sceneggiatura è stata modificata in corso d’opera, ma è inevitabile che ciò accada una volta giunti sul set. Per la definizione di Franny l’obiettivo principale è coinciso con la volontà di non cadere nei cliché. Avrebbe potuto essere una specie di stalker e invece non supera quel confine, avrebbe potuto essere ridotto a un morfinomane ma anche in questo caso il contorno impedisce questa semplificazione. Franny è una summa. E non manca in lui un lato umoristico: del resto, “più le situazioni sono tragiche – dice Gere – più si sfocia nel cosiddetto ‘black humour’“. A un tratto gli viene chiesto cosa ne pensi della sparatoria di San Bernardino e lui ricorda come “gli Usa sono il paese al mondo con più armi: credevo che dopo la sparatoria ci sarebbe stata una sollevazione popolare contro le armi, viceversa è accaduto il contrario, al grido di ‘dobbiamo difenderci di più’. Negli Usa anziché alla cause si guarda agli effetti, e per di più quando è ormai troppo tardi: io sono contrario allo spirito di vendetta, all’iper protezione, ai vigilanti privati. Bisognerebbe invece scavare dentro, capire perché le persone si comportano così male“. E ritrovare il valore dell’amore, dell’affetto, della comprensione, della saggezza.

Poi si torna a parlare di cinema. A Gere non dispiacerebbe l’idea di girare un film in Italia, c’è più di un regista con cui gradirebbe lavorare ma l’unico nome che fa è quello di Bernardo Bertolucci. Perché finora non ha lavorato nel Bel Paese? Perché non si sono create le giuste congiunzioni, non c’è stata la giusta alchimia. Però mai dire mai, appunto. Una cosa è certa: lui continuerà ad agire come sempre, ovvero a scegliere ruoli ascoltando la voce dell’istinto. In passato ha fatto anche cattive scelte e ne è consapevole, però non se ne fa un cruccio. La cosa che conta è “essere sorpreso. Ma l’idea di passare sul piccolo schermo non lo attira affatto. Richard Gere gira film dagli anni Settanta e “non voglio rinunciare – conclude – all’esperienza del cinema. Al buio della sala, agli estranei intorno, a quella magia“. Dunque no, non lo vedremo mai in una serie tv.

Foto by Velvet cinema

Impostazioni privacy