Paki Meduri: “Ho fatto un salto nel vuoto e scelto la scenografia”

Fino a un certo punto la strada di Paki Meduri è stata una linea retta tracciata col colore della serenità. La convinzione che sarebbe diventato architetto gli è scesa nell’animo che era poco più d’un bimbo. Una sorta di predestinato, insomma. Zero dubbi all’orizzonte. E quindi l’iter regolare: iscrizione alla Facoltà di Architettura di Roma, primi esami dati senza troppa fatica perché comunque c’era portato. Non solo. La Dea Bendata aveva deciso di viziarlo, probabilmente sedotta lei stessa dalla sua – innegabile – predisposizione naturale. Così, ventenne, Paki ha conosciuto un architetto assai quotato nella Capitale. Proprietario di uno studio molto ben avviato cui si rivolgeva l’upper class per la costruzione e la ristrutturazione di lussuosi immobili. Fra i clienti, principi e deputati. Tante ricche abitazioni in stile neoclassico, arredamenti d’epoca, ore passate sui libri d’arte e di storia per avere il massimo risultato. Faticoso, certo. Ma ne valeva la pena: “Avevo vinto – dice Paki – avevo prospettive enormi, quell’uomo era il mio mentore. Ero il suo pupillo. Avevo davanti un futuro tranquillo e soddisfacente“. Non aveva fatto i conti, però, col destino. Che spesso di diverte a sconvolgere le carte in tavola. Forse per vedere l’effetto che fa.

Paki aveva un coinquilino, un attore alle prime armi. Che stava preparando il suo primo spettacolo teatrale. Sperimentale. Il regista, per alcune prove, andava a casa loro. E vedeva il promettente architetto sempre chino sul tecnigrafo, perso fra camini, archi e cose del genere. Magari aveva subodorato qualcosa. Fatto sta che un bel giorno gli ha spiegato di essere senza scenografo, proponendo proprio a lui quel ruolo. Paki era completamente digiuno di scenografia. Però ha accettato. Per divertirsi un po’: “Non è il mio lavoro, mi sono detto. Posso esagerare senza problemi. Ma sì, farò una cosa proprio bizzarra“. E voilà, ecco una scenografia tutta viola, di plastica infuocata e squagliata. Ecco la febbre impadronirsi di Paki insieme all’ossessione per l’immagine. Eccolo, sedersi su quasi tutte le poltroncine del teatro – fino all’ultimissima – per capire “dove funzionava di più e dove di meno“. E’ piaciuta, cotanta bizzarria. E la sua vita è cambiata. Così, senza preavviso.

Dopo quel primo spettacolo sono arrivati altri ingaggi.
Sì, altri registi mi hanno fatto delle proposte. E ho accettato.

E il tuo mentore?
All’inizio sono riuscito a conciliare tutto: lavoravo per lui, frequentavo l’Università, facevo le scenografie. Spesso finivo di studiare la sera e passavo la notte a lavorare. Non mi accorgevo, però, che gradualmente la scenografia stava prendendo sempre più spazio. Poi, verso i 24 anni, è diventato necessario prendere una decisione.

E hai scelto la scenografia, con buona pace dello scintillante futuro da architetto.
Già (sorride, ndr…). Direi che hanno vinto l’ego e la libertà. Per avere risultati con l’architettura bisogna avere pazienza. Ci vuole tempo. Con la scenografia invece arrivano subito. Ci sono gli oggetti, le forme, sei libero di creare ciò che vuoi.

Però hai lasciato il certo per l’incerto.
E’ vero, ho fatto un salto nel vuoto. Sono sempre stato piuttosto sicuro di me, ma non potevo avere la certezza di trovare sempre lavori come scenografo. E in più guadagnavo pochissimo con gli spettacoli teatrali. Però stava nascendo un amore… E comunque avevo sempre il mio piano B che mi trasmetteva una certa forza. Pensavo che, se fosse andata male, sarei tornato tranquillamente a fare l’architetto.

Autodidatta?
Ah sì, completamente. Non sono mai stato assistente scenografo. Ho continuato a fare cose mie. Piccole, magari, però mie. Ho imparato sul campo e guardando tanti, tantissimi film. Appena potevo mi infilavo nei teatri di posa a vedere come venivano realizzate le grandi costruzioni scenografiche dei maestri. Soltanto alcune volte mi sono rivolto a scenografi ormai affermati, chiedendo aiuto nella risoluzione di qualche problema. Ma l’ho fatto sempre in punta di piedi. Per il resto, inventavo. E sono certo di aver trovato anche soluzioni assurde. Soluzioni che un professionista con una preparazione ad hoc non avrebbe mai nemmeno proposto.

Facevi teatro ma miravi al cinema.
Sì, è sempre stato l’obiettivo finale. E devo dire che anche l’incontro con il cinema è avvenuto in modo casuale. Uno dei registri teatrali con cui ho lavorato si è cimentato con i suoi primi video e mi ha coinvolto. Poi è arrivato il primo film, Good Morning Aman di Claudio Noce. L’anno dopo, nel 2010, Into Paradiso di Paola Randi (nomination per la Migliore scenografia ai David di Donatello 2011, ndr). Entrare in questo mondo è stato bello, molto. Ma all’inizio anche doloroso.

… Doloroso?
Sì, stavo male quando vedevo smontare le mie scenografie. Un male anche fisico. E ci soffro ancora ancora oggi. Di meno, ma ci soffro. Ti faccio un esempio: per Suburra ho ricostruito il Parlamento negli Studios di Tiburtina. Un lavoro durato un mese e mezzo, cominciato con lunghe ricerche storiche. Ho persino trovato le vecchie piante. Le riprese, in quelle location, sono durate soltanto mezza giornata. E io non ho voluto esserci quando poi hanno portato via tutto. Rispetto al teatro, però, col cinema c’è un vantaggio: non sparisce tutto ma resta un punto di vista. Il punto di vista del regista sulla tua opera.

Hai lavorato per altri titoli, fra cui Miss Julie di Michael Margotta e Diciotto anni dopo e Buongiorno papà di Edoardo Leo. Aggiungiamo le miniserie tv Un amore di strega con Alessia Marcuzzi e Cesare Mori – Il prefetto di ferro. Poi c’è stato l’incontro con Stefano Sollima.
Ci conoscevamo, ma non avrei mai pensato di lavorare con lui in Gomorra – La serie. A distanza di tempo, nel 2013, è arrivata la sorpresa. La sua proposta.

Cosa hai provato?
Due sensazioni del tutto opposte. Da un lato la felicità assoluta. Dall’altro dispiacere, perché stavo per partire con un altro film. Mettendo le due cose sulla bilancia, ho dovuto rinunciare. E sì, mi è dispiaciuto molto.

Quanto tempo è durato il lavoro per Gomorra?
Dal novembre 2012 al Natale 2013. E’ stato il mio lavoro più importante, ma anche il più duro e difficile. Per fortuna io e Stefano ci siamo trovati in assoluta sintonia sull’idea del mondo che volevamo raccontare. Cosa è Gomorra? Dove vivono queste persone? In quali ambienti si muovono? Queste le principali domande che ci siamo posti e a cui abbiamo dato la medesima risposta. Che credo sia quella giusta davvero. La forza di questa serie è il realismo della collocazione. Lo stile scelto per restituire tutte le vicende.

Nella prima fase ti sei documentato?
Esatto. Ho letto il più possibile, soprattutto articoli di giornali. Ho visto decine di documentari. Ho cercato di capire cosa abbiano in casa queste persone, quali siano i loro gusti in fatto di arredamento. Ho accumulato un’infinita serie di informazioni visive e poi trovato una chiave di lettura: tanto cemento. Ambienti asfissianti. poco verde, perché il verde simboleggia la speranze e queste persone non ne hanno. Lo dimostrano i fatti: o muoiono giovani o finiscono in galera. Situazioni grigie, dunque. Opprimenti. Abbiamo anche eliminato l’orizzonte. Perché non c’è neanche l’orizzonte per loro. Successivamente ho trascorso 3 mesi per strada, scandagliando la periferia di Napoli. La conosco a memoria. Ho fatto una mappatura dei luoghi che ritenevo giusti come location e c’è stato poi il confronto col regista. Fra la prima e la seconda serie abbiamo utilizzato circa 500 location.

Personaggi senza speranza e senza futuro, dunque, quelli di Gomorra. Che, però, da una parte del pubblico sono stati ugualmente idealizzati.
Ne siamo consapevoli e per certi versi non ce lo spieghiamo. Sono personaggi negativi. Pensando ai telespettatori, abbiamo fatto il seguente ragionamento: anche se empatizzi con loro, anche se ti affezioni, nel momento in cui ti deludono e fanno qualcosa di brutto… ti allontani da loro. Cambia il tuo sentimento. Non è stato sempre così. Non volevamo fare il Padrino ma raccontare la storia di una famiglia, far vedere cosa è successo ai suoi componenti e cosa succede se ti incammini lungo la strada della criminalità. Far vedere quanto sono brutte certe situazioni.

Fra la prima e la seconda stagione di Gomorra sei stato sul set di Noi e la Giulia di Edoardo Leo per cui hai conquistato la nomination ai David di Donatello 2015, Alaska di Claudio Cupellini e Suburra dello stesso Sollima. Anche quest’ultimo parecchio impegnativo, direi.
Il film più complesso che abbia mai fatto per la quantità delle scenografie e per la loro struttura: il Parlamento di cui parlavo prima, il Vaticano, lo stabilimento a Ostia che prende fuoco, le abitazioni dei rom…

La fatica più grande?
La casa del Papa. Ho ripensato a come l’avevano ricostruita coloro che mi hanno preceduto, mi sono chiesto come avrei voluto affrontarla io. Alla fine ho scelto di farla più umile rispetto ad altri, più vicina a come si dice che sia veramente. Si dice, appunto. Perché vederla è impossibile.

Quali sono i tuoi impegni attuali?
Sto preparando Tito, nuovo film di Paola Randi.

Soddisfatto della tua vita?
Di quella lavorativa sì. Per il resto, senza dubbio questo lavoro esige gran parte del tempo e tante energie.

La tua ambizione più grande?
Fare cose belle. Sempre.

Sei d’accordo con chi dice che siamo entrati nel Rinascimento del cinema italiano?
Sì, decisamente. Vedo film belli, vedo registi che hanno il coraggio di raccontare. Vedo una nuova generazione di sceneggiatori molto capaci.

Paki ama il cinema. E ama da matti quello che fa. Ogni anno, però, paga e rinnova l’iscrizione all’Ordine degli Architetti. E se uno sconosciuto gli chiede che lavoro faccia, lui risponde “l’architetto”. Misteri insondabili della mente umana.

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