Le leggi del desiderio: Silvio Muccino fra maschere e sentimento

Dopo quattro anni di assenza e silenzio, ma non di pausa effettiva, Silvio Muccino torna in scena. Nelle vesti di regista, di protagonista e di co-sceneggiatore: Le leggi del desiderio, che sarà nelle sale dal 26 febbraio distribuito da Medusa (che lo produce anche insieme alla Lotus production), è scritto con Carla Vangelista. E Le leggi del desiderio punta i riflettori sui “figli fortunati della crisi“, come li definisce Muccino, ovvero i life coach. I motivatori, per dirla in italiano. Figure che aiutano, o almeno questa è la loro promessa, a farsi strada nella vita e raggiungere i traguardi più ambiti. Realizzare i desideri più grandi, appunto, con coraggio ed estrema sicurezza nelle proprie possibilità. Non è facile stabilire fino a che punti siano dei professionisti o fino a che punto siano soltanto abili venditori di fumo; probabilmente ha ragione il giovane regista nell’affermare che ci sono sempre stati, fin dai tempi antichi: “solo che prima si chiamavano sciamani“. E gli effetti li sortivano, eh.

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Secondo Giovanni Canton (Muccino), funambolico trainer motivazionale, esistono delle tecniche precise e degli stati mentali precisi che si traducono nel raggiungimento delle mete più ambiziose, che si tratti del lusso o del potere, del successo o dell’amore. Canton ha un seguito pazzesco, i suoi libri vanno a ruba, anche se non manca chi lo considera una sorta di imbroglione. E proprio per dimostrare le sue effettive capacità, lui decide di organizzare un concorso per selezionare tre persone che nell’arco di sei mesi – seguendo i suoi insegnamenti e suggerimenti – rivoluzioneranno la propria esistenza facendo il giro della sospirata boa. I tre prescelti sono Luciana Marino, interpretata da Carla Signoris, segretaria in Vaticano, moglie e madre irreprensibile che però in gran segreto scrive libri ad alto tasso erotico; Matilde Silvestri, che ha le sembianze di Nicole Grimaudo ed è una trentaduenne single, amante del suo capo sposato Paolo Rubens ovvero Luca Ward. Infine c’è Ernesto Colapicchioni-Maurizio Mattioli, sessantenne che ha perso il lavoro e ha una moglie in valida e di rassegnarsi proprio non vuole saperne. Inizia il percorso, sulle prime Canton crede di poter avere (come sempre) il controllo su tutto ma verrà smentito dai sentimenti. Che causeranno un corto circuito e dimostreranno infine la loro prevalenza su qualsiasi maschera. Anche la più vicina alla perfezione.

Muccino ha realizzato un film che gli stava parecchio a cuore e s’è preso i suoi tempi. Il suo personaggio potrebbe sembrare una sorta di autocelebrazione, l’espressione di un ego imponente, ma in realtà è tanto lo spazio lasciato al trio composto dalla Signoris, dalla Grimaudo e da Mattioli. Quest’ultimo lo considera uno dei ruoli più complessi che gli siano mai capitati, perché ha un retrogusto amaro ricco di sfumature: si è lasciato guidare dal “ragazzino“, come lo definisce affettuosamente, e si dice soddisfatto del risultato finale. La sua performance, in effetti, non può non essere apprezzata. La Grimaudo arriva finalmente al suo primo ruolo ampio, definito, anche gratificante; si cimenta – sempre per la prima volta – con un registro comico e, soprattutto in una scena con Luca Ward, riesce a stupire. Ward stesso racconta che, quando Muccino l’ha chiamato per il provino, è rimasto un po’ perplesso: lui, abituato a fare “la iena, il killer, quello che ruba, imbroglia o comunque compie malefatte“, come se la sarebbe cavata con un personaggio che è quasi una caricatura? Pensa e ripensa, alla fine ha accettato di buttarsi. E sa essere così viscido che a tratti vien voglia di prenderlo a schiaffi. Infine Carla Signoris, chiamata a interpretare una donna dalla doppia personalità e a passare dai panni dell’impiegata grigia e noiosa e quelli di una milf con un debole per l’alcol e i look appariscenti. Convince? La sua faccia cambia in base ai panni, gli occhi e le movenze passano dal “represso” al riscatto con facilità; forse qualche bicchiere in meno, nella seconda parte, sarebbe stato meglio.

Così come è innegabile la presenza di qualche luogo comune, soprattutto verso le ultime scene il finale. Ma il fatto è che Muccino si mostra pienamente consapevole di sé: lo sapeva, lo sa, l’ha fatto ugualmente e con serenità. Voleva un lieto fine rassicurante e positivo. Aveva voglia di parlare d’amore, al contempo cercando di proporre qualcosa di diverso. E mai nessuno, finora, aveva portato sul grande schermo un life coach. Qualche sbavatura c’è, sì. Qualche eccesso c’è. Ma il bello, lo ribadiamo, è che i difetti sono così evidenti che sembrano essere messi là apposta. E se non è andata così, Muccino può considerarsi fortunato. “Attenti a quello che desiderate perché potreste ottenerlo“, dice Canton. Con quegli occhi azzurri che se la ridono. Gli piace fare il macho dal cuore tenero, è ormai chiaro. Però sa cambiare abito, pur andando in tale direzione. E sa essere generoso con gli attori che lo affiancano sul set. Non è fagocitante. Un merito.

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