Poull Brien, “Charles Bradley: Soul of America”: intervista esclusiva

VANESSA CROCINI DA LOS ANGELES – Immaginate un ragazzo un po’ dandy, così ben vestito da sembrare quasi italiano, e con un sorriso che quasi sempre sfocia in una risata. Poull vive a Brooklyn, è un filmmaker a tutti gli effetti: curioso, interessato a tutto e ama chiacchierare. Negli ultimi due anni ha visto coronare il suo sogno: fare documentari non è mai facile, la sua determinazione e visione creativa lo hanno ripagato. Charles Bradley: Soul of America negli ultimi mesi ha scalato la top 10 di iTunes negli Stati Uniti, superando il premio Oscar Searching for Sugarman.

Brien racconta la storia del cantante soul Charles Bradley, che è diventato una star della musica internazionale all’età di 62 anni. Il suo primo album No Time for Dreaming è nella classifica della rivista Rolling Stone nei 50 migliori del 2011. Abbandonato dai genitori da giovane, Bradley ha vissuto da solo e povero per le strade di New York, esibendosi come sosia di James Brown, con i nomi “Black Velvet” e “James Brown Jr.”. Per 48 anni i suoi sogni di fama erano proprio lontani, ma Bradley non ha mai mollato e alla fine ha trovato quel successo tanto cercato con la sua “vera voce”. A 62 anni, Charles ha sconvolto la scena musicale con il suo timbro vocale, il suo stile e il potere dei suoi sogni che appunto sono diventati realtà. Ho intervistato il regista in esclusiva per Velvet Cinema.

Quando hai iniziato a fare film?
In realtà studiavo medicina all’Università, ma dopo pochi mesi mi sono reso conto che proprio non era quello che avrei voluto fare per il resto della mia vita, e così un giorno, dopo una lezione dove ero stato ripreso da un professore, sono andato al dipartimento di Cinema e mi sono iscritto lì. Non avevo mai desiderato girare un film ma mi sono appassionato subito e mi sono immerso nel linguaggio cinematografico anche se i miei corti fatti all’epoca non erano proprio il massimo, anzi…

Come è nato il tuo interesse per i documentari?
Non ero un bravo sceneggiatore, più cercavo di scrivere una storia di finzione e più mi rendevo conto che proprio non era il mio forte. Ero attratto dal cinema verità, da storie vere e ho capito che se c’era una certa notizia o persona che mi interessava, li’ era dove mi dovevo focalizzare e immergermi completamente in quel soggetto, nella sua vita, nei suoi successi, nelle sue delusioni, e mostrarla attraverso il mio punto di vista. E’ questo il bello dei documentari in fondo. Riesci a far conoscere attraverso il tuo punto di vista una storia o una persona che altrimenti sarebbero sconosciuti.

Qual è la difficoltà maggiore per un documentarista?
Penso che se vuoi fare il documentarista a tempo pieno, la difficoltà maggiore viene dal fatto che economicamente sei sempre in bilico. Ho avuto tanti momenti nei quali ero veramente in difficoltà e vivendo a New York, dove la vita è molto cara, mi sono chiesto se dovevo continuare a seguire questa mia passione oppure cercarmi un altro lavoro. Ho diretto pubblicità e campagne marketing e sono un bravo montatore, ma essendo libero professionista, a volte lavori per diversi mesi di fila e altre volte no. Non è facile essere sempre positivi quando fai l’artista a tempo pieno. Ma penso che quando c’è qualcosa che ti piace fare per davvero, se persisti, prima o poi qualcosa succede. Se trovi veramente la storia che vuoi raccontare è come avere una famiglia tutta tua, e se devi lavorarci per anni, allora è meglio che ci sia un budget, perché altrimenti è molto difficoltoso. Io ero ad un passo dal rinunciare a tutto e poi è arrivato Charles Bradley.

Come l’hai conosciuto?
Ero ad Aspen con il mio amico Alex, produttore con il quale avevo lavorato e stavamo parlando di musica. Mi ha dato dei CD con delle canzoni che gli piacevano e una di quelle era proprio di Charles Bradley. Ho ascoltato la sua canzone The World (Is Going Up in Flames) e gli ho chiesto da dove fosse spuntato questo artista. La sua voce mi ricordava molto James Brown, ma con un altro timbro ben definito. Sono un appassionato di musica e anche un musicista e quella canzone era tutto quella che avrei voluto comporre. Alex mi ha detto che conosceva la sua casa discografica, Daptone Records e che alla venera età di 62 anni, Charles stava registrando il suo primo album, dopo una vita non molto facile. Mi sono messo in contatto con la casa discrografica e ho diretto il suo primo music video. E’ stata una bellissima esperienza perche’ Charles e’ unico, non solo come artista ma come persona. Mentre giravamo, ha condiviso con noi molte storie del suo passato e come era riuscito a risorgere. Io e Alex, produttore del music video, ci siamo guardati e gli ho detto: “Giriamo un corto sulla vita di Charles!” Charles ci ha dato il suo ok, Alex ha messo i soldi e abbiamo iniziato le riprese.

Come hai prodotto il film?
Dopo poco che stavamo girando, mi sono reso conto che il risultato sarebbe stato un lungometraggio. Lo abbiamo seguito per 35 giorni con due macchine da presa e in totale non avevo molte ore di girato, circa 40. La mia fortuna penso sia stata iniziare a montare mentre giravamo il film. Ho avuto il privilegio di lavorare con la mia bravissima montatrice Adriana Pacheco Rincon, e abbiamo lavorato sodo per pochi mesi. Avevo un senso forte della storia che è la cosa fondamentale, e via via che montavo anche il mio direttore della fotografia Stuart MaCardle ha preso parte al montaggio. E’ stata una stretta collaborazione tra me, la montatrice e il direttore della fotografia. Conoscevamo molto bene il girato e il montaggio è stato proprio un bel processo e soprattutto veloce!

Cosa hai imparato da questo film?
Ho imparato che se vuoi fare un bel documentario, devi avere un bella storia e un bel team. Sono cambiato tantissimo dopo questo film. Ho capito che ci sono molte persone che sono disposte ad aiutarti se credono in te (vedi Alex, che ha messo via via tutti i soldi del budget.) Charles mi ha fatto questo bellissimo regalo: si e’ fidato completamente di me e mi ha fatto entrare nella sua vita, parte della quale era molto dolorosa da ri-raccontare. Conoscerlo mi ha cambiato a livello personale e professionale.

A cosa stai lavorando adesso?
Sto lavorando ad un reality show che ho venduto ad un canale americano con la troupe più incredibile con la quale abbia mai lavorato. Giriamo 3/4 giorni alla settimana in Florida. Non posso parlare in dettaglio ma posso dirti che sto conoscendo dei gran personaggi!

Cosa diresti ad un giovane regista?
Il mio consiglio è seguire quello che più appassiona: un personaggio, una storia, un genere in particolare. Non importa cosa, l’importante è concentrarsi su quello che ti da’ energia per questo lavoro. Ci vuole molta determinazione e volontà ma se non c’e’ passione per quello che fai, nessuno ce la mette per te.

Qual e’ il tuo documentario preferito e perché?
Tutte le volte che mi fanno questa domanda, non so mai come rispondere. Penso che ogni documentario che guardo, mi lascia qualcosa dentro. Se mi commuovo, allora in quel momento quel documentario mi trasforma a livello emotivo e professionale. Nell’ultimo anno Five Broken Cameras e Searching for Sugarman mi hanno veramente colpito. Storie diverse tra di loro ma toccanti in maniera molto particolare. Searching for Sugarman poi era spesso in competizione con Charles Bradley: Soul of America in molti festival ai quali ho partecipato e ho avuto la possiblità di conoscere il regista, un ragazzo svedese molto in gamba. Sono molto contento che ha vinto l’Oscar, anche se devo essere sincero: quando Charles Bradley: Soul of America ha scalzato Searching for Sugarman nella classifica dei documentari più visti su iTunes, a dieci giorni dall’uscita, è stata una bella rivincita! E spero che succeda presto in Europa, anche se gioco fuori casa!

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